Matteo Renzi con Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Perché Renzi è il vero arbitro del dopo

Redazione

Il premier tra tattiche e sospetti. Se vince il No, “non è il capo dello stato a decidere quando si vota”

Roma. E a Palazzo Chigi è il momento dei piani di riserva, dei retropensieri e delle strategie preventive. Nulla può essere lasciato al caso. E insomma il giorno dopo il big bang, il 5 dicembre, un minuto dopo l’esito del referendum, comunque vada a finire, tutto dev’essere già pronto, già chiaro, cosa fare e come farlo, specialmente un punto, forse dirimente, certo scivoloso: i rapporti con il Quirinale, con quel Sergio Mattarella che è sì arbitro per unzione e funzione costituzionale, pensano a Palazzo Chigi, ma che pure non è padrone del destino della legislatura – e questo può suonare come una piccola eresia – poiché non sono nella sua disponibilità i numeri della maggioranza parlamentare, gli intricati giochi d’equilibrio nel controllo dei flussi all’interno del partito di maggioranza relativa, quel Pd di cui Renzi, comunque vada a finire, vuole restare segretario e artefice dei destini. E allora se dovesse vincere il No, Renzi potrebbe dimettersi, come ha già ipotizzato, sostenere insomma un nuovo esecutivo che avrebbe il compito di riscrivere la legge elettorale, correggere il sistema disomogeneo (Italicum alla Camera e proporzionale puro al Senato) che verrebbe fuori qualora la riforma costituzionale fosse respinta.

 

E questo è già chiaro. E’ la parte più ovvia, e forse più semplice del piano di riserva, nel campo delle previsioni infauste che discendono da una eventuale sconfitta al referendum. Ma che succederebbe se Renzi volesse andare al voto anticipato? Se il segretario del Pd decidesse di voler portare subito all’incasso delle politiche i voti che al referendum sono andati al Sì? E cosa accadrebbe se Renzi si accorgesse che il governo chiamato a riformare la legge elettorale ha l’effetto di logorarlo? Ecco allora che si profila lo scontro, forse temuto, con il capo dello stato, il presidente insondabile, arbitro e sfinge della Repubblica.

“La persuasione è più efficace se non viene proclamata in pubblico”, ha detto Mattarella qualche giorno fa. Lo diceva già Don Chisciotte dei diplomatici della sua epoca: “Nella bocca chiusa non entrano le mosche”. E così Renzi, che pure lo ha eletto e voluto al Quirinale, non lo capisce, e un po’ forse, in fondo, ne diffida, perché sa di avere di fronte non soltanto una sfinge d’uomo e di presidente, ma un osso istituzionalmente duro: non ci sono denti e solventi renziani abbastanza efficaci, in caso di scontro, per corrodere le mura del Quirinale, che appartiene a un altro mondo. Ma è pure vero, come insistono nel dire i migliori amici del presidente del Consiglio, che “se Renzi resta segretario del partito, resta anche padrone dei numeri parlamentari. E il momento in cui una legislatura va sciolta, alla fine, lo decide solo formalmente il presidente della Repubblica, che deve prendere atto di quegli equilibri che sarà Renzi a determinare”. Chissà. Spesso la spavalderia si accompagna al timore. Un timore giustificato, forse. Perché dev’esserci un motivo se da alcuni giorni – almeno così sospettano nel gruppo renziano – il Quirinale sia diventato meta di pellegrinaggio di alcuni avversari di Renzi. E non appare casuale che tutti, persino alcuni membri della maggioranza del Pd, nonché i giornali, non facciano che ripetere, come fosse uno scongiuro, che “l’arbitro è Mattarella”.

 

Così nei corridoi e nelle stanze del renzismo di governo, e di partito, già si fanno calcoli, proiezioni, e un po’, ogni tanto, in questo clima non sempre del tutto sereno, si riaffaccia anche, con le sembianze di un incubo (o di un miraggio?): il volto di Dario Franceschini, capo della più forte e collaudata tra le correnti del Pd. E con lui, in una specie di pallottoliere dei politici ambigui, rientrano, nelle fantasie e nei calcoli dei renziani, anche parecchi altri ex democristiani di sinistra, tutto un mondo che – oltre a contare parecchio in Parlamento – ha anche una antica e solida consuetudine con Mattarella. E allora è vero: Renzi è padrone della maggioranza parlamentare, e se volesse potrebbe anche mettere il Quirinale di fronte a un fatto compiuto: non c’è più maggioranza, si deve votare. Ma che succederebbe se, intorno all’arbitro, intanto, si stringessero anche gli ex democristiani del Pd? Ecco l’incubo che prende corpo.