Vincenzo De Luca, il presidente della Campania (foto LaPresse)

La scelta di De Luca: addio telefono

Salvatore Merlo
Il presidente della Campania, lui che della parola sbrigliata e chiassosa da mammasantissima ha fatto un marchio di fabbrica, il telefono non lo usa, conosce la trappola di chi gioca con le intercettazioni, addirittura pare che cambi con frequenza i mobili del suo studio perché ha il terrore delle cimici.

Roma. C’è un numero di cellulare, ma squilla sempre a vuoto, il suo fedele amico Fulvio Bonavitacola, che è una specie di Sancho Panza salernitano, raccoglie messaggi e distribuisce promesse, “ma quello al telefono non ci parla”, e così nemmeno la batteria di Palazzo Chigi riesce a trovarlo, e se telefonare a sua moglie è una buona idea, lui però non richiama mai: la leggenda vuole che persino Matteo Renzi abbia difficoltà a parlarci quando ha bisogno, perché Vincenzo De Luca, il presidente della Campania, lui che della parola sbrigliata e chiassosa da mammasantissima ha fatto un marchio di fabbrica, lui che le spara sempre grosse, lui che sembra non avere freni inibitori (e qui forse sta la ragione di tutto), il telefono non lo usa, conosce la trappola di chi gioca con le intercettazioni, addirittura pare che cambi con frequenza i mobili del suo studio – il quartier generale lo ha stabilito a Salerno, a Napoli ci sta pochissimo, non si fida – perché ha il terrore delle cimici.

 

E insomma De Luca, nel parapiglia di spacconate e brutture lessicali, in un mondo in cui la politica e il suo sottobosco vengono da tempo ormai immemore incastrati da una stupefacente vanagloria ciarliera senza inizio e senza fine, è l’unico esemplare della specie politica italiana (se si esclude Gianni Letta) a non avvicinare la bocca al ricevitore. D’altra parte una telefonata ti allunga la vita, come diceva una vecchia pubblicità della Sip con Massimo Lopez, o ti sputtana per sempre. E così De Luca, che evidentemente in privato si esprime anche peggio di come fa in pubblico, sembra voler comunicare (con il suo silenzio) che per far politica in Italia non si deve parlare al telefono, che un po’ è un paradosso, ma pure, come tutti i paradossi, ha una sua dose di verità, nel paese in cui le intercettazioni, tra ballerine e fanfaroni, sono diventate un contundente strumento di lotta politica, sempre sospeso tra il Moulin Rouge e la Fortezza Bastiani, con un vago sospetto di Bagaglino.

 

E le intercettazioni sono ovviamente uno strumento di indagine utile a confermare gli indizi di colpevolezza che nascono dalle inchieste, ma col tempo e con l’espansione incontrollata del loro impiego sono diventate invece, in molti casi, un’alternativa alle indagini, o uno strumento d’informazione anomala e gossippara, tendente al morboso, o alla propalazione selettiva delle conversazioni, spesso penalmente irrilevanti, talvolta persino inesistenti come è capitato a Rosario Crocetta, ma pure utili a comminare condanne a mezzo stampa che a volte non trovano conferma nelle aule di giustizia, con l’accompagnamento di rivolgimenti politici e ribaltoni, dimissioni e nuove elezioni, e altro caos e altre nubi di nuovo gas. Più si insegue la realtà nelle intercettazioni, più la realtà si trova un passo più in là, da dove fa capolino un istante prima di sparire nel cappello del diabolico prestigiatore che sa rendere diverso l’identico e identico il diverso. Un giorno ci va di mezzo Silvio Berlusconi, un giorno Piero Fassino, poi dopo qualche anno tocca a Matteo Renzi.

 

E spesso è capitato di pensare che i politici parlassero troppo al telefono, e senza igiene nel linguaggio, ma mai si sarebbe potuto immaginare che un genuino prodotto del plebeismo carismatico meridionale come De Luca, uno la cui grammatica è impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche, potesse praticare il silenzio come risorsa della comunicazione politica, quasi rivelando così che i veri problemi non sono tanto per i banditi (quelli ai pizzini ci hanno pensato per tempo), ma per gli innocenti baldanzosi, per gli spacconi vanitosi, per gli sbrigliati come lui: la zona grigia delle nostre fantasie e del nostro personale cazzeggio.

 


Un esempio del linguaggio di De Luca


 

“Io continuo a parlare normalmente al telefono”, diceva Silvio Berlusconi a dicembre del 2008. Non l’avesse mai fatto. Nella baraonda italiana, dove uno o è intercettato o intercetta, quella del Cavaliere, uomo non tanto convinto della politicità della politica, era ancora la storia del sole in tasca, dell’ottimismo e della paura che si batte non avendo paura (o facendo finta di non averne), una cosa da impolitico, appunto, da uomo privato e da anomalia. Al contrario, il silenzio di De Luca, quel suo scientifico non parlare a telefono, oggi sembra voler significare che la politica è un lavoro che per sua natura contrasta con l’ingenuità, con il candore, dunque stride con le astrattezze vaghe e del tutto teoriche della cosiddetta limpidezza morale (d’altra parte De Luca è famoso per aver detto cose di questo tipo: “Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c’è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l’ha è una chiavica”).

 

E se c’è dunque un’intrusione pressoché sistematica nella privacy dell’amministrazione politica, se avanza l’idea che nel codice rilassato di una telefonata si nasconda la realtà delle cose, allora bisogna difendersi, dice De Luca, anche ricorrendo all’arte del tacere, che è poi un fondamentale e disatteso precetto proprio della politica, già espresso nel Settecento in un famoso libretto dell’abate Dinouart, in termini che pure mal si adattano al carattere arruffato di De Luca: “Il silenzio politico è quello di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dice tutto ciò che pensa, che non chiarisce sempre la sua condotta e le sue intenzioni”. E così, alla fine, viene da pensare che De Luca non abbia tutti i torti. Ma, ascoltandolo in tivù, nelle sue esplosioni pirotecniche, viene anche da pensare che potrebbe estendere l’arte del silenzio dell’abate Dinouart alle sue esternazioni pubbliche, e non solo a quelle telefoniche.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.