Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi (foto LaPresse)

New deal liberale contro la politica del tweet

Claudio Cerasa
Il tentativo messo in campo ieri da Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi di immaginare un nuovo percorso per l'Europa è interessante e ovviamente ha un suo senso. Ma c’è un problema cruciale che riguarda due paesi rappresentati ieri sulla Garibaldi. Oltre Ventotene. Nessuna svolta senza linguaggio della verità. Appunti per Renzi.

Il punto in fondo è tutto qui: come si passa dalla pratica del new tweet alla logica del New Deal? Le immagini della portaerei Garibaldi immortalata ieri di fronte a Ventotene, con a bordo i leader dei tre più importanti paesi dell’Eurozona, ci aiuteranno a credere, con l’aiuto di qualche metafora azzeccata e di qualche citazione strappalacrime, che l’Europa, alleluia, è pronta a “salpare” verso “un nuovo orizzonte”, è intenzionata a imboccare una “nuova rotta” ed è desiderosa di evitare a tutti i costi la “deriva” del nostro continente. Il tentativo messo in campo ieri da Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi di immaginare un nuovo percorso per la nostra acciaccata Europa è interessante e ovviamente ha un suo senso. Ma al netto della retorica delle buone intenzioni, c’è un problema cruciale che riguarda due paesi rappresentati ieri sulla Garibaldi (la Francia e l’Italia) ed è un problema centrale per comprendere qualcosa in più sui limiti della politica continentale di oggi: è possibile costruire l’Europa del futuro senza usare il linguaggio della verità (si può crescere con demografia bassa e produttività limitata?), rinunciando a capire quali sono le carenze strutturali (l’Europa cresce se è competitiva nel mondo globalizzato, non se scappa dalla globalizzazione) e illudendo noi stessi che siano sufficienti iniezioni a vario titolo di spesa pubblica (sulla cultura, sui migranti, sul terrorismo, sull’economia) per far uscire i nostri paesi dalla crisi ed essere finalmente tutti al passo con i tempi? Il tema dell’uso genuino del linguaggio della verità riguarda la Francia e l’Italia più che la Germania. Ma a voler essere sinceri il tema riguarda prima di tutto il capo del paese che ha ospitato il vertice di Ventotene: ovviamente, Matteo Renzi. Il problema può essere sintetizzato più o meno così: è possibile costruire il futuro di una nazione ragionando solo con la logica veloce del tweet, dei risultati a breve termine, senza ammettere, invece, che la politica dell’adesso funziona quando bisogna cambiare le persone ma funziona meno quando bisogna provare a cambiare un paese? Non si può capire molto dell’Italia, di Renzi e della nostra politica senza partire da questo passaggio importante: non ci sarà nessuna svolta culturale, economica, strutturale se non ci sarà un leader capace di parlare agli elettori con il tocco rooseveltiano del linguaggio della verità.

 

Si tratta, come è evidente, di una trasformazione non banale, tosta, difficile, specie per un presidente del Consiglio che ha costruito la sua ascesa (“Adesso” fu la parola chiave delle primarie del 2012) giocando sulla velocità d’azione, sulla logica del tweet, sul modello del governo dei sindaci, sul ridimensionamento dei corpi intermedi, sull’idea (febbraio 2014) di fare una riforma al mese e sull’illusione, alimentata dallo stesso Renzi, di poter cambiare tutto rapidamente e di poter misurare la qualità delle trasformazioni del proprio paese con i decimali della crescita e gli zero virgola dell’occupazione (con gli zero virgola, rimproverava Renzi a Letta, il paese non va da nessuna parte). La velocità, lo scatto del centometrista, ha portato a qualche buon risultato, ha contribuito a promuovere un ricambio della classe dirigente che c’è stato, ha portato all’approvazione di alcune buone leggi (Jobs Act, banche popolari, legge elettorale) e ha avuto l’effetto di trascinare la sinistra italiana verso una “rotta” diversa, meno schifiltosa del mercato, rispetto a quella imboccata dalle altre fallimentari sinistre europee. Oggi però la velocità, combinata alla politica dell’adesso, è diventata paradossalmente il nemico numero uno del governo Renzi (ed è la stessa logica che di solito porta a costruire leggi di Stabilità poco strutturali e molto clientelari). Ed è evidente che dentro la bolla del tutto e subito è impossibile utilizzare quel linguaggio della verità che permetterebbe invece al governo di affrontare i dossier più importanti del nostro paese senza foga e con minore superficialità. E’ difficile chiedere a un velocista di cambiare metodologia di allenamento e prepararsi improvvisamente a correre i tremila siepi al posto dei duecento metri.

 

Eppure per Renzi non c’è altra scelta che passare dalla pratica del new tweet alla logica del New Deal e provare così a costruire all’interno del paese una grande coalizione trasversale non con i partiti ma direttamente con i lavoratori, gli intellettuali, gli imprenditori, le forze politiche e persino le forze sindacali. Per esprimere un concetto semplice che solo apparentemente potrebbe non portare consenso: il paese, cari cittadini, non si può cambiare con una riforma al mese perché oggi non si tratta di fare i conti con una classe dirigente da rottamare ma si tratta di fare i conti con una serie di problemi gravi, profondi, che non si possono risolvere con la retorica dell’adesso. Può essere duro da accettare ma non è sufficiente un tweet su Altiero Spinelli per spiegare che l’Italia non crescerà e non diventerà un paese migliore fino a quando si continuerà a lavorare poco e male. Fino a quando la produttività continuerà a essere inferiore a quella del resto del continente: nel 2015 la produttività media del lavoro in Italia è scesa dello 0,1 per cento, nello stesso anno nell’Eurozona è aumentata dello 0,6, in Germania dello 0,9. Fino a quando ci si illuderà che sia sufficiente accogliere più migranti per risolvere il dramma della demografia: nel 2050, escludendo dalla contabilità la variabile migratoria, gli italiani, dice l’Eurostat, si ridurranno dai 60,6 milioni del 2015 ai 51,5 del 2050. Fino a quando faremo credere a noi stessi che la risposta giusta alla crisi della globalizzazione sia quella di chiudere i mercati e non di aprirli ancora con più convinzione. Fino a quando si continuerà a immaginare che i nostri redditi siano decontestualizzati dalle dinamiche economiche e siano tutti semplicemente frutto di rendite di posizione.

 


L’Italia non crescerà e non diventerà un paese migliore fino a quando non capiremo che oggi, nel cuore della prima rivoluzione industriale della storia moderna che distrugge posti di lavoro invece che crearne, il punto vero nel mondo del lavoro non è fra avere garanzie o non averle ma è fra il lavorare e il non avere lavoro (entro i prossimi cinque anni, secondo un recente studio del Forum economico mondiale, 5 milioni di persone rischiano di essere sostituiti da automi governati da sofisticati algoritmi). Fino a quando, insomma, ci illuderemo che sia sufficiente una riforma al mese per evitare che l’Italia continui a essere un paese in cui ci vogliono 1.185 giorni per risolvere una controversia commerciale (394 in Germania), 233 giorni per ottenere un permesso di costruzione (64 in Danimarca), 269 ore all’anno per pagare le tasse (110 nel Regno Unito).

 

Il passaggio da velocista a mezzofondista è cruciale per Renzi non tanto per la sua carriera politica quanto per il futuro di un paese che non può costruire la sua “nuova rotta” solo rincorrendo un qualche decimale di crescita o un qualche zero virgola di maggiore occupazione. A Renzi, e anche all’Europa, serve un New Deal non in senso di una rivoluzione socialista a colpi di spesa pubblica e di sussidi a macchia di leopardo. Serve un approccio diverso, nuovo, lontano dalla retorica dell’adesso, che porti il presidente del Consiglio a presentarsi di fronte agli elettori e a fare un discorso simile a quello che gli americani ascoltarono il 4 marzo del 1933, in piena depressione, in piena crisi economica. “Sono convinto – disse Franklin Delano Roosevelt – che, se c’è qualcosa da temere, è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata. Chiederò al Congresso l’unico strumento per affrontare la crisi. Il potere di agire ad ampio raggio, per dichiarare guerra all’emergenza. Un potere grande come quello che mi verrebbe dato se venissimo invasi da un esercito straniero”. La passeggiata a Ventotene avrà molti significati aiuterà la nave europea a disegnare nuove meravigliose rotte per il nostro Continente. Ma il vero punto di fondo, al netto della retorica europeista, è tutto qui e non riguarda solo l’Italia: come si passa concretamente dalla pratica del new tweet alla logica del New Deal? E’ arrivato il momento di parlarne. Adesso, come un tempo avrebbe detto qualcuno.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.