Il premier Matteo Renzi in campagna elettorale per il candidato sindaco a Torino, Piero Fassino (foto LaPresse)

Altro che Roma e Milano, il campanello d'allarme per Renzi potrebbe risuonare da Torino

Sergio Soave

Il secondo turno delle elezioni comunali di domenica ci dirà qual è la salute del renzismo. Ma se a Roma, Milano e Napoli sono da escludersi grandi rivoluzioni, la sconfitta di Piero Fassino potrebbe significare un cedimento strutturale del consenso attorno al premier.

Come sarà l’Italia lunedì, quando si conosceranno i risultati dei ballottaggi nelle grandi città? Si dice che se i candidati del Partito democratico soccomberanno a Roma e a Milano si sancirà una specie di rivoluzione negli assetti politici, ma di questo è lecito dubitare. A Roma, se vincerà Virginia Raggi, nonostante le apparenze, ci sarà una conferma. Già Ignazio Marino aveva segnato una rottura con il Pd renziano e non è un caso se gli ultimi due sindaci, ambedue travolti da scandali e scandalismo, lo stesso Marino e Gianni Alemanno, fanno il tifo per la candidata grillina. A Milano il centrodestra è sempre stato competitivo e quasi sempre prevalente, con l’eccezione della vittoria di Giuliano Pisapia, dovuta anche a errori di sottovalutazione commessi nella precedente campagna elettorale da Letizia Moratti. Si può aggiungere che anche a Napoli la vittoria di Luigi de Magistris sarebbe una conferma, non una novità, e l’espressione del radicamento di un nuovo “meridionalismo” antiproduttivo accompagnato da una retorica ribellista. La primavera di De Magistris è poi così lontana dal “rinascimento napoletano” di Antonio Bassolino?

 

I risultati, anche nell’ipotesi più negativa per il Pd, sarebbero il segno che il renzismo non ha inciso su queste importanti realtà metropolitane, il che naturalmente segnala problemi aperti e anche gravi, ma non nuovi. Lo stesso si può dire della sfida di Trieste, dove un sindaco democratico uscente si confronta con un sindaco precedente del centrodestra. Naturalmente sarà rilevante l’effetto mediatico e l’impressione psicologica che conseguiranno a vittorie o sconfitte in queste città, ma per quel che riguarda la definizione dei rapporti di forza politici a livello nazionale sono più significativi gli esiti dei primi turni, che come si è visto sono stati talmente articolati da non giustificare letture unilaterali.

 

A questo quadro di sostanziale stabilità delle tendenze già emerse, bisogna però aggiungere il caso di Torino, che potrebbe invece rivelare, nel caso di una sconfitta (improbabile ma non impossibile) di Piero Fassino, un profilo elettorale davvero preoccupante per il Partito democratico e per Matteo Renzi. Lo stesso naturalmente varrebbe in caso di una, per la verità inimmaginabile, sconfitta a Bologna. A Torino, città governata da decenni dalla sinistra, c’è stato, se così si può dire, un renzismo ante litteram. Quando Sergio Chiamparino decise di schierare il partito con un candidato moderato contro il sindaco comunista uscente, compì il primo esperimento di successo di conquista del centro e di accettazione di una competizione a sinistra. Ora Chiamparino, che da presidente del Piemonte dispone di un osservatorio rilevante, osserva i dati elettorali, che anche a Torino mostrano una concentrazione dell’elettorato democratico nei quartieri centrali e una flessione in quelli periferici più popolari, e ne attribuisce la causa a una impostazione della politica governativa poco attenta alle esigenze degli strati meno fortunati.

 

Chiamparino non è un demagogo, non ha mai affiancato le campagne sindacali basate su pure lamentazioni, si è esposto nella battaglia contro i No-Tav, quindi non può essere sospettato di gauchismo. Se a Torino il Pd dovesse cedere di fronte all’arrembaggio grillino, questo sarebbe il segno di un cedimento strutturale, di una reale perdita di contatto con settori decisivi dell’elettorato, determinata dal complesso delle scelte politiche e non dalla propaganda scandalistica o antipolitica.

 

La propaganda basata sul “tutto va bene madama la marchesa” che anche Chiamparino imputa a Renzi, e che ha trovato una nuova espressione nella campagna di esaltazione della (presunta) riduzione delle tasse, contrasta con la percezione diffusa non solo negli strati che hanno subito più pesantemente gli effetti della crisi. I risultati elettorali aiuteranno a capire se questa contraddizione fa presa anche nelle roccaforti democratiche del nord, il che farebbe squillare qualcosa di più di un campanello di allarme, oppure se tutto sommato prevale l’idea che bene o male “la barca va”.