Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Cercasi disperatamente metodo Jobs act

Claudio Cerasa
Gli osservatori internazionali mugugnano (Ft, Wsj, Nyt, Economist). Renzi risponde con buoni numeri sui contratti di lavoro del 2015. Basta? Nein! Cosa serve per governare inseguendo il buon senso, e non solo il consenso.

Da cosa dipende il successo di un governo? Di solito da tre fattori che raramente riesce a miscelare insieme chi si trova alla guida di un paese. Fattore numero uno: impatto reale delle riforme sulle performance economiche di un paese. Fattore numero due: abilità nel trasformare alcune riforme dettate dal buon senso (e non dal consenso) in riforme su cui costruire un nuovo bacino di consenso. Fattore numero tre: convincere, della bontà delle proprie riforme, sia la base elettorale sia la base finanziaria (senza base elettorale, i governi non funzionano; senza base finanziaria, senza l’appoggio dei mercati, i governi non durano). Ecco. A due anni dall’insediamento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, esiste un’unica riforma che contiene tutti i requisiti minimi per poter essere considerata un successo rotondo del governo. E quella riforma è la stessa che ha permesso ieri al presidente del Consiglio di rispondere con alcuni numeri alle molte sculacciate, alcune delle quali anche ben motivate, ricevute nelle ultime ore da tre quotidiani, non italiani, che di solito misurano come un termometro il grado di fiducia che suscita un capo del governo sulla scena internazionale.

 

I tre giornali sono il Financial Times, il Wall Street Journal e il New York Times, tutti ieri a vario titolo critici con il governo italiano. Chi per questioni legate alla crescita che non va come dovrebbe (Ft: “Il leader più forte in Italia dai tempi di Silvio Berlusconi deve fare i conti con i problemi in casa propria e all’estero che minacciano di travolgere la sua amministrazione”). Chi per questioni legate alle brusche oscillazioni del sistema bancario (Wsj: “Al sistema bancario italiano urge una soluzione rapida che non trasformi il dissesto di alcuni istituti in una grave crisi sistemica”). Chi per questioni legate alle ambiguità del duello tra Renzi e Europa (secondo il Nyt, “c’è il rischio che i mercati puniscano l’Italia prima ancora che Renzi possa negoziare un allentamento dei vincoli di bilancio con l’Unione europea”). Tre segnali significativi (quattro, se consideriamo anche l’affondo dell’Economist in edicola sul sistema bancario italiano) ai quali Renzi però ieri ha potuto rispondere con alcune conferme arrivate dall’Inps rispetto agli effetti della riforma economica più importante approvata in questi primi due anni dal governo: il Jobs Act, la riforma del lavoro. Il metodo Jobs Act non è centrale solo per i buoni numeri relativi all’aumento di contratti a tempo indeterminato firmati nel corso del 2015 (sono state 2,4 milioni le assunzioni a tempo indeterminato, lo scorso anno, comprese le trasformazioni di rapporti a termine e gli apprendistati, a fronte di 1.684.911 cessazioni; mentre nel 2014 il saldo dei posti stabili fu negativo per 52.137 unità).

 

E’ importante perché rappresenta il modello che Renzi dovrebbe seguire per costruire un percorso virtuoso, non solo per se stesso ma per tutto il paese, da qui al termine della legislatura. Il Jobs Act è stato a tutti gli effetti un mix perfetto di tabù abbattuti, di sfida alla sinistra conservatrice, di sberle al corporativismo, di allargamento del perimetro del Pd, di consenso costruito senza guardare i sondaggi ma con una riforma di consenso, di conquista dei mercati, prima, e degli elettori, dopo, ed è un modello che il presidente del Consiglio dovrebbe seguire per mettere a segno, nei prossimi mesi, quelle riforme senza le quali difficilmente il 2016 regalerà, sul fronte occupazione, gli stessi risultati del 2015 – anno dolcemente “drogato” (copyright Tommaso Nannicini) dall’uso di quegli sgravi contributivi che hanno spinto molte imprese a firmare nuovi contratti a dicembre (272 mila unità, il doppio del mese precedente), forti della consapevolezza che il governo avrebbe dimezzato nel 2016 gli 8 mila euro di sgravi previsti nel 2015 per le assunzioni a tempo indeterminato. Il ritornello purtroppo è noto ma vale la pena scolpirlo sulla pietra una volta per tutte. Senza riforma del lavoro, le imprese non avrebbero ricominciato ad assumere. Senza riforme toste, quest’anno non ci sarà una crescita significativa e di conseguenza le imprese smetteranno di assumere. Il metodo Jobs Act – metodo che ha permesso a Renzi di costruire un modello di riformismo apprezzato in Europa e fatto proprio anche da una sinistra in trasformazione come quella francese il cui governo sta lavorando a un progetto di riforma del lavoro che si ispira esplicitamente al modello italiano – andrebbe applicato anche alla riforma della giustizia, la riforma della spesa pubblica, la riforma della Pubblica amministrazione, la politica industriale, il pacchetto privatizzazioni, la riduzione della tassazione e il percorso seguito da Renzi a fine 2014 per portare a casa il Jobs Act dimostra non solo che è possibile tenere insieme popolo e mercati ma che i grandi vincoli che tengono l’Italia legata sono soprattutto in Italia e non solo in Europa. Bene.

 

[**Video_box_2**]Due anni dopo si può dire che il metodo Jobs Act sia ancora il cuore del renzismo? Da un certo punto di vista, la scelta di aver trasformato nel proprio Osborne la persona che ha materialmente ideato il Jobs Act, Nannicini, sembra essere una scelta che potrebbe confermare l’idea che Renzi sia interessato a riprodurre nel tempo il metodo utilizzato per riformare il lavoro. Ma in realtà sui grandi dossier economici sui quali dovrà lavorare il governo la traiettoria scelta da Renzi sembra essere diversa e il tema del raggiungimento del consenso (vedi il tema del non taglio alla spesa pubblica) spesso ha una priorità oggettiva sul tema delle riforme di buon senso. Renzi in queste ore è impegnato attraverso l’approvazione della legge sulle unioni civili a ricompattare il fronte delle sinistre e si capisce che il presidente del Consiglio sia preoccupato dalla possibilità che la trasformazione del Pd in Pdn (Partito della nazione) porti qualche elettore ad allontanarsi dal Pd. Eppure, ragionando sul futuro, la strada sembra essere segnata e per applicare anche nei prossimi mesi il metodo Jobs Act sarà importante che Renzi dia per una volta ascolto a quello che un collega di governo, Manuel Valls, in Francia, ha capito bene osservando lo stato delle sinistre europee. In Francia, sostiene Valls, ci sono due “sinistre irreconciliabili” che hanno ormai una visione antitetica su tutte le questioni vitali che un paese riformista deve affrontare e per questo è utopistico oggi volerle tenere insieme a tutti i costi. Il Jobs Act servì a Renzi a costruire un perimetro nuovo dentro cui far viaggiare il paese e il Pd. Uscire da quel perimetro potrebbe essere pericoloso, per il Pd e ovviamente anche per il nostro paese.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.