Antonio Bassolino (foto LaPresse)

Vedi Napoli e poi…

Salvatore Merlo
De Luca preferisce De Magistris a Bassolino. E Renzi è l’ultima vittima d’una faida lunga 35 anni. Correva l’anno 1978, o forse era il 1979, e in una stanza affacciata su Piazza del Plebiscito a Napoli, sede del gruppo regionale del Pci a Palazzo reale, due giovanissimi funzionari comunisti, quasi venivano alle mani di fronte a tutto il gruppo consiliare.

Roma. Pare che il battere dei pugni sul tavolo si sentisse anche dall’altro capo del telefono mentre Vincenzo De Luca, il presidente della Campania, pronunciava queste parole stringendo il cellulare come Orlando il suo corno a Roncisvalle: “Statemi bene a sentire, piuttosto che Bassolino io, anzi ‘noi’… noi… votiamo De Magistris”. E davvero negli ultimi giorni Matteo Renzi deve aver avuto l’impressione d’essere risucchiato in un cosmo come appartato, in uno spazio senza tempo, completamente estraneo ai fermenti di vita e ai rivolgimenti politici che da un anno e mezzo hanno percorso come un brivido la schiena del centrosinistra e del Partito democratico: da quando Antonio Bassolino ha annunciato l’intenzione di candidarsi a Napoli, di partecipare alle primarie, il segretario del Pd e presidente del Consiglio è stato avvolto, come in un soffocante sudario, da una baruffa strapaesana le cui origini si perdono lungo la vertiginosa parete del tempo, fino a un passato quasi senza memoria. Correva l’anno 1978, o forse era il 1979, e in una stanza affacciata su Piazza del Plebiscito a Napoli, sede del gruppo regionale del Pci a Palazzo reale, due giovanissimi funzionari comunisti, uno di Salerno e l’altro di Afragola, entrambi iscritti alla sezione “Di Vittorio”, quasi venivano alle mani di fronte a tutto il gruppo consiliare, compresi gli imberbi Umberto Ranieri e Claudio Velardi: i due agitatissimi contendenti erano De Luca e Bassolino, impegnati in “uno scazzo epico”, come ricordano i testimoni, un conflitto endemico, insuperabile, ininterrotto, lungo trentasei anni. Una volta ci andò di mezzo anche Piero Fassino: “E ora stringetevi la mano”, disse balbettando. Ma ricevette una pernacchia. Poi fu il turno di Massimo D’Alema. E ogni volta c’è un segretario che prova a sbrogliare, ogni volta ci sono delle elezioni di mezzo, e ogni volta è il partito, si chiami Pci, Pds, Ds o Pd, a uscirne schiantato. “Statemi bene a sentire… piuttosto noi votiamo De Magistris”, dice adesso De Luca.

 

E tutti si ricordano quando sul finire degli anni Settanta Bassolino riuscì a impedire che De Luca diventasse segretario cittadino del Pci, e tutti ricordano quando De Luca prese la parola alla festa dell’Unità di Agropoli dicendo che nel partito con il quale Bassolino governava la regione c’erano troppi “cafoni arricchiti”, e poi ancora le infinite lotte per la presidenza della Campania, con le primarie farlocche, i cinesi in fila, fino alla sconfitta del centrosinistra nel 2010. Così qualche giorno fa, a Roma, dalla sede di Largo del Nazareno è stata lanciata con un sibilo nell’universo la proposta, vaga, timida e anonima, di modificare le regole di partecipazione alle primarie, un tentativo di fermare Bassolino, e impedire dunque una nuova guerra termonucleare in Campania tra i due stagionati contendenti. Ma non ha funzionato. Renzi ha lasciato che la notizia viaggiasse sui giornali, ed è rimasto “a vedere di nascosto l’effetto che fa”, come nella canzone di Jannacci, ma poiché l’idea veniva malamente respinta, il segretario ha poi lasciato che le critiche piovessero come pietre sulle teste di Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, loro che nel Pd hanno all’incirca lo stesso compito che Angelino Alfano ha nel governo: quello del parafulmine.

 

Così adesso Renzi cerca il rinvio, ha la necessità di prendere tempo e di studiare il sistema di sopravvivere – e magari d’imporsi con un candidato giovane e alieno – in questa giungla napoletana dove il partito nazionale, quello della rottamazione, subisce l’arrembanza dei cacicchi e il fragore nefasto di antiche lotte che fanno correre la memoria al comitato federale comunista degli anni Ottanta, intrecci che avrebbero del grottesco se non fossero dannatamente seri: con Umberto Ranieri che pensa pure lui di candidarsi, e con il vecchio Berardo Impegno, già dignitario del Pci napoletano di vent’anni fa, impegnato a convincere De Luca a sostenere addirittura la candidatura dinastica di suo figlio (ovviamente contro Bassolino), tutte trame e rivalità rinchiuse nel sacco asfittico d’una provincia sorda.

 

[**Video_box_2**]E c’è davvero tutto in quell’allusione di De Luca a Luigi De Magistris, il sindaco in carica che Bassolino vuole sfidare e che, per una sorta di strano contrappasso, in questa lotta di potere meridionale, non soltanto attrae De Luca (“meglio lui di Bassolino”) ma anche i prudenti ex democristiani del Pd, quei piccoli principi del consenso che in Campania si chiamano Topo (Lello) e Casillo (Mario), il presidente della commissione Sanità  e il capogruppo del Pd in regione. De Luca non sopporta Bassolino e gli preferisce De Magistris, mentre loro, vecchie volpi Dc, temono sia De Luca sia Bassolino e tutti i piccoli colonnelli da cui si sentono minacciati, “quelli si dividono il partito” – temono – dunque anche per loro, che non lo confessano nemmeno sotto tortura, è meglio De Magistris. Ed è così che sotto lo sguardo di Renzi viene componendosi, stupendamente monocromo, il mosaico di una sconfitta. O forse di un suicidio.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.