L'ego di Marino e il definitivo game over del Partito dei sindaci

Salvatore Vassallo
Il Pd di Renzi ha rimesso in moto l’azione di governo salvando la legislatura, ma ora si occupi della classe politica locale

Mafia Capitale e l’ego del Marziano, oltre ad altri vari danni collaterali più dirompenti hanno definitivamente collassato il mito del Partito dei sindaci, il principale architrave simbolico dell’epifania renziana. Il Sindaco d’Italia che sperava di innervare il partito e il paese di arrembanti primi cittadini, lontani da convegni e tartine, e pronti a risolvere problemi, dalle buche al traffico, dalla neve da spalare alle dimore per i senzatetto. Certo, Ignazio ha toccato il fondo. Tra delirio di onnipotenza,  impegni surreali , dileggio degli avversari, amicizie millantate con i potenti della Terra (e non solo), non si capiva francamente se Marino c’era o ci faceva.
Game over dunque per il partito dei sindaci. Con nemesi totale se si pensa che a gestire il caos romano Renzi ha dovuto mandare Matteo Orfini, un politico puro, un “antisindaco” quanto a formazione intellettuale e biografia pubblica, per di più estraneo al giglio magico. Uno dei dirigenti nazionali del Pd tra i più avveduti sulle dinamiche interne di sezioni e correnti. Ognuno può avere dubbi sulle ingenuità che avrebbe commesso. Ma chi se la sente di maltrattarlo faccia un esercizio mentale e provi a immaginarsi uno qualunque degli attuali componenti della Segreteria nazionale negli stessi panni.

 

Al netto delle avversità che la politica non può controllare (crisi economica, corruzione, migrazioni epocali), questo è un bel problema che il Pd-di-Renzi ha di fronte, pur con i suoi meriti. E’ il-Pd-di-Renzi, infatti, che ha rimesso in moto l’azione di governo salvando miracolosamente una legislatura destinata all’inconcludenza, che ha approvato riforme ferme da decenni. Un-partito-con-un-leader, o almeno la cosa più simile nella storia politica italiana non solo recente. Con ciò intendendo il Pd caratterizzato, in questa fase, dalla leadership di Renzi, non un partito di sua proprietà che possa completamente modellare a suo piacimento. Un partito senza il quale nemmeno Renzi sarebbe arrivato dov’è. Per chi non crede alle magnifiche sorti del populismo euroscettico, e per chi non ha una radicata identificazione con la destra, è l’unica àncora a cui il paese si può appendere (ogni riferimento alla farlocca teoria del Partito della Nazione è escluso).

 

[**Video_box_2**]Una parte del paese reale lo capisce. Forse oggi lo capiscono di più gli imprenditori e le partite iva dei lavoratori dipendenti. Lo capiscono gli antagonisti, attori politici popolari o populisti che siano, i vecchi proprietari della ditta, corporazioni e antichi establishment trattati con sufficienza. Ed è quello quindi (il-Pd-di-Renzi) il loro bersaglio quotidiano. Pare che gli unici a non averlo capito siano i diretti interessati. Renzi dimostra di avere ben chiaro che la sua forza dipende dal partito e viceversa, ma non ne trae le conseguenze. Ha annunciato già due volte riforme interne che non ha praticato. Per non parlare dei messaggi contradditori sulle primarie. Ed è troppo facile per i renziani dire che il problema sta nella diversa velocità della rottamazione al livello nazionale e nei territori. Rispetto al cambio di passo di Palazzo Chigi, non s’è visto niente di simile a trecento passi di distanza, nel quartier generale del Pd. Si dice che sulle beghe interne e sulla classe politica locale Renzi non avrebbe potuto esercitare lo stesso piglio decisionista che ha messo nel governo. La verità è che non ci ha mai messo la testa, o ha preteso di risolvere i problemi all’ultimo momento con suoi emissari. Non ha creato un gruppo dirigente autorevole e una strategia per ricostruire l’infrastruttura organizzativa. E l’autonomia della politica sta deflagrando nelle mani di commissari super-tecnici. Lo schianto del mito del partito dei sindaci e il timore del tonfo alle amministrative 2016 dovrebbero creare l’occasione, forse l’ultima, per pensarci.

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