Maria Elena Boschi (foto LaPresse)

Il ricatto della riforma

Redazione
Attenzione a dare potere di veto alle regioni sul bilancio dello Stato

La discussione sulla riforma costituzionale che abolisce il bicameralismo perfetto si sta avvitando su questioni sostanzialmente secondarie, usate dalle varie correnti, a cominciare dalla minoranza del Pd, per scopi politici di orizzonte limitato. L’assetto istituzionale risente del peso di questioni irrisolte, a cominciare dal ruolo delle istituzioni regionali che negli anni si sono caratterizzate, con poche eccezioni, come centri di spesa incontrollata in un regime di finanza derivata. Le regioni spendono e spandono, poi passano alla cassa attribuendo allo Stato nazionale la responsabilità di reperire attraverso il fisco le risorse necessarie. Abolire le regioni mantenute, sostituendole con forme controllabili di autonomie territoriali che siano costrette a chiedere ai cittadini le risorse necessarie per le loro scelte sarebbe la decisione più saggia. E’ impossibile? Pare di sì e quindi bisogna accontentarsi di verificare se la riforma possibile, quella del Senato, peggiora o migliora la situazione. Purtroppo è chiaro che la peggiora, indipendentemente dal fatto che i nuovi senatori vengano eletti in secondo grado dai consiglieri regionali o direttamente dai cittadini. La questione, che è diventata il punto cruciale del dibattito, in realtà è assolutamente secondaria. Il punto vero è che il Senato delle regioni avrebbe il potere di approvazione del bilancio dello Stato, nel quale naturalmente sono compresi i trasferimenti alle stesse regioni.

 

Nella Conferenza stato-regioni, è il governo ad avere il coltello dalla parte del manico. Se le regioni non accettano la disciplina di bilancio, il cosiddetto patto di stabilità interno, il governo può sempre far approvare le sue proposte dal Parlamento. Nel nuovo regime, invece, sarebbe una specie di conferenza tra le regioni, chiamata Senato, a poter imporre al governo i trasferimenti richiesti pena la non approvazione del bilancio. Sarebbe diverso, naturalmente, se le regioni avessero una autonomia impositiva e dovessero ottenere il consenso della popolazione per la loro politica di spesa che automaticamente si ribalterebbe in richieste di contributo fiscale. Nel sistema attuale di finanza derivata, invece, si avrebbe una situazione paradossale che imporrebbe allo stato di soddisfare a piè di lista le pretese delle regioni spendaccione, con l’effetto di impedire ogni politica efficace di razionalizzazione dei costi e di riduzione degli sprechi. Il vero nodo della riforma del Senato è questo, ma nessuno se ne occupa. Tengono invece il campo problemi sostanzialmente formali e speciosi, come la fanfaluca del Senato di garanzia che farebbe rientrare dalla finestra la possibilità di rimpallare tra le Camere le scelte legislative – quella che era uscita dalla porta con l’abolizione, indispensabile, del bicameralismo ripetitivo.

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