Un poliziotto respinge un manifestante durante una protesta anti austerutà mercoledì a Londra (foto LaPresse)

Il populismo irrilevante

David Carretta
A un anno dalle europee “vinte” dai populisti il bilancio del loro operato (e dello stato di salute) è fallimentare. Sta meglio chi ha smesso di essere troppo anti Ue. Al Parlamento europeo  popolari, socialisti e liberali si coalizzano. Ieri s’è votato per il Ttip, nuovo totem da abbattere. Inchiesta.

Bruxelles. La prima esperienza di un governo puramente populista in Europa, la coalizione tra l’estrema sinistra di Syriza e l’estrema destra dei Greci indipendenti ad Atene, si sta rivelando un fallimento. L’esperimento greco è destinato a concludersi con un fallimento politico per il primo ministro Alexis Tsipras, arrivato al potere in gennaio promettendo di mettere fine al memorandum che impone alla Grecia la tanto odiata austerità in cambio degli aiuti internazionali, ma che sarà costretto ad accettare di proseguire sulla strada dei precedenti governi se vuole permettere al suo paese di sopravvivere dentro la zona euro. Altrimenti per Tsipras sarà il fallimento finanziario, nel senso di default con possibile “Grexit”, il che significherebbe passare dalla “spirale dell’austerità” e dalla “catastrofe umanitaria” denunciate da Syriza alla “spirale della miseria” e alla “catastrofe umana” che le ideologie antisistemiche hanno così spesso prodotto nella storia. A un anno dalle elezioni europee, che avrebbero dovuto destabilizzare il panorama politico dell’Unione europea per la progressione nelle urne di partiti anti europei di destra e di sinistra, il caso Tsipras dimostra che gli anticorpi sono più resistenti di un virus populista che si nutre della rabbia istantanea degli elettorati, ma alla fine si rivela più fragile del corpo istituzionale che si propone di distruggere. Dalla Finlandia alla Spagna, costretti a scegliere tra il compromesso per governare e la radicalità irrilevante, i populisti stanno facendo cilecca.

 

L’esempio più evidente è all’Europarlamento. Dodici mesi dopo la notte del 26 maggio 2014, quando i populisti conquistarono il primo posto in Francia (con il Front national di Marine Le Pen), nel Regno Unito (con l’Ukip di Nigel Farage), in Danimarca (con il Partito del popolo danese di Kristian Thulesen Dahl) e in Grecia (con Syriza di Tsipras), il Parlamento europeo continua a funzionare alla perfezione grazie alla grande coalizione tra popolari, socialisti e liberali. Una nuova Commissione, quella di Jean-Claude Juncker, è stata eletta con maggioranze analoghe a quelle di José Manuel Barroso o Romano Prodi. Le direttive e i regolamenti continuano a essere approvati senza troppe difficoltà. Ieri, una commissione dell’Europarlamento è riuscita perfino ad approvare una risoluzione a favore dell’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti – il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) – che i populisti di destra e di sinistra, impregnati di anti liberalismo e anti americanismo, hanno eretto a nuovo totem da abbattere. Nel frattempo, gli anti europei sono riusciti a dividersi, spaccarsi e rompersi, ma soprattutto a non farsi sentire. Nigel Farage non ha voluto unirsi a Marine Le Pen, lasciando la leader del primo partito di Francia tra i “non iscritti”, come Matteo Salvini e la sua Lega nord e l’olandese Geert Wilders. Il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo ha rischiato di perdere il gruppo parlamentare con l’istrione inglese dell’Ukip a causa della diserzione dell’euroscettica lettone Iveta Grigule. Barbara Spinelli ha abbandonato la lista Altra Europa per Tsipras, ma senza lasciare un seggio che i suoi ex compagni accusano di occupare abusivamente.

 

A livello nazionale, le cose non vanno meglio per i populisti. Sin dai primi dibattiti della nuova legislatura europea, il britannico Farage aveva annunciato che avrebbe fatto le valigie per trasferirsi da Bruxelles e Strasburgo verso Londra, dove avrebbe fatto un ingresso trionfale a Westminster, forte del 26,6 per cento ottenuto alle europee. Il settimo tentativo del leader dell’Ukip doveva essere quello buono e invece il vecchio sistema “first past the post” (l’uninominale secco a un turno) lo ha tradito di nuovo. Il 7 maggio scorso il suo partito è arrivato terzo, con quasi 4 milioni di voti e il 12,6 per cento, ma con un unico eletto alla Camera dei Comuni. Sconfitto nel collego di South Thanet, Farage ha finto di dare le dimissioni, prima di ritirarle, aprendo una spaccatura dentro l’Ukip, con contestazioni per la linea troppo “Tea Party” all’americana, un mezzo tentativo di colpo di stato dentro il partito e uno dei suoi principali finanziatori che ha annunciato la fine delle regalie.

 

[**Video_box_2**]Marine Le Pen sta vivendo traversie simili in Francia. Al primo turno delle elezioni locali di fine marzo il suo Front national ha confermato il radicamento sul territorio, arrivando in seconda posizione con circa il 25 per cento dei voti. Ma, al secondo turno, Marine non è riuscita a ottenere la maggioranza in nessun dipartimento, mentre il suo tentativo di dare una patina di rispettabilità all’estrema destra francese ha portato a una clamorosa rottura con il padre, Jean-Marie Le Pen. “Spero che la presidente del Front national si sposi al più presto possibile, perché mi vergogno che porti il mio stesso cognome”, ha detto Jean-Marie dopo essere stato epurato da Marine per le sue dichiarazioni troppo nostalgiche del regime di Vichy. Dopo aver ripudiato la figlia, non è escluso che Le Pen padre annunci la creazione di un nuovo partito che potrebbe sottrarre al Front national l’elettorato ultracattolico e reazionario che costituisce lo zoccolo duro del partito.

 

In Spagna, Podemos avrà contribuito a far eleggere una “indignados” sindaco di Barcellona e, se deciderà di allearsi con i socialisti, potrebbe conquistare anche il municipio di Madrid. Alle elezioni politiche che si terranno entro la fine dell’anno, il bipartitismo spagnolo potrebbe lasciare il posto a un nuovo bipolarismo. Ma il leader Pablo Iglesias ha dovuto annacquare l’ideologia del movimento, fino alla rottura con l’ex numero tre, Juan Carlos Monedero, secondo cui la linea “chavista” delle origini è stata tradita un po’ troppo facilmente per rispondere alla sfida di Ciudadanos, un altro movimento nato dal basso, ma moderato, liberale e pro europeo che sta conquistando sempre più consensi nei sondaggi e nelle urne. Il dilemma tra responsabilità e radicalità sta minando i Democratici svedesi, con la leadership moderata di Jimmie Åkesson contestata dal movimento giovanile e da altre frange che chiedono un ritorno alle origini neonaziste. In Germania, al vertice di Alternative für Deutschland, si è aperta una guerra tra il conservatore Bernd Lucke e il più estremista Frauke Petry, che rischia di portare alla disintegrazione del partito, nel momento in cui la Cdu di Angela Merkel sta recuperando gli elettori fuggiti verso il partito no euro.

 

I populisti che hanno chiaramente scelto la strada della moderazione per entrare al governo sono quelli del partito dei Finlandesi – gli ex Veri Finlandesi – di Timo Soini. Di fronte a una serie di risultati elettorali al ribasso – il 12,9 per cento alle europee del 2014  dopo il 19,1 per cento alle politiche del 2011 – Soini ha rinunciato alla richiesta di cacciare la Grecia dalla moneta unica e alle posizioni più euroscettiche e  ha ottenuto il 17,6 per cento nel voto di aprile. Pur di entrare nell’esecutivo che si sta formando sotto la direzione del centrista Juha Sipilä, il leader dei Finlandesi ha lasciato il posto di ministro delle Finanze ad Alexander Stubb, ex premier liberal-conservatore, con posizioni filo europee, molto più incline a fare concessioni alla Grecia quando siederà all’Eurogruppo. Soini andrà invece al ministero degli Esteri, senza rotture con la tradizionale diplomazia di Helsinki. “Rimarremo un amico critico dell’Europa”, ha spiegato Soini.

 

Essere populista in un governo di coalizione si è dimostrato però difficile, a volte fatale, in altri paesi. In Danimarca, dove si vota a giugno, il Partito del popolo danese potrebbe entrare in un esecutivo di centrodestra. Ma il 26,6 per cento ottenuto alle europee dello scorso anno è il frutto del ritorno all’opposizione, dopo la perdita di velocità elettorale registrata durante gli anni dell’alleanza con i conservatori-liberali tra il 2001 e il 2011. In Olanda, il Partito della Libertà di Geert Wilders non si è ancora ripreso dall’appoggio esterno concesso per due anni – dal 2010 al 2012 – all’esecutivo del liberale Mark Rutte. Non solo il consenso elettorale per Wilders si è eroso. In un trend analogo a quello registrato dai sondaggi in Spagna nella sfida tra Podemos e Ciudadanos, in Olanda gli anti europei sono stati surclassati dai pro europei: il partito liberale di sinistra dei D66. In Austria, la Fpö di Jörg Haider aveva governato con i popolari dal 2000 al 2007, facendo molto rumore ma pochi danni in Europa. Da allora i populisti austriaci hanno subìto diverse scissioni, ma soprattutto hanno cementato la grande coalizione europeista tra popolari e socialdemocratici.

 

Certo, sfruttando la rabbia popolare per l’austerità o l’immigrazione, i populisti un risultato l’hanno raggiunto. Sono riusciti a frammentare i sistemi politici europeo e nazionali. Ma l’esito è stato di costringere i partiti tradizionali a saldarsi, attraverso grandi coalizioni o alleanze inedite, che hanno preservato il sistema politico democratico e liberale tradizionale dell’Ue. Il fallimento di Syriza in Grecia, invece, sta spingendo molti populisti a essere meno populisti: Podemos ha rinunciato a predicare esplicitamente la denuncia del debito pubblico, mentre il Front national ha smesso di chiedere ad alta voce l’uscita dall’euro, ma al prezzo di una disgregazione che li rende sempre meno pericolosi.