La discussione alla Camera sulla riforma della legge elettorale (foto LaPresse)

La ginnastica contorsionista sulla riforma elettorale

Salvatore Merlo
Quando i politici italiani cominciano a parlare di riforma elettorale, cosa che in questo paese si fa abbastanza spesso, ciascuno rivela uno specialissimo gusto per le astrazioni furbesche, incoraggiate dal più vivido individualismo.
Quando i politici italiani cominciano a parlare di riforma elettorale, cosa che in questo paese si fa abbastanza spesso, ciascuno rivela uno specialissimo gusto per le astrazioni furbesche, incoraggiate dal più vivido individualismo: ciascun partito, ciascuna corrente di partito, blocca e rilancia in base a imperscrutabili ragioni di sopravvivenza. Non si spiegherebbero altrimenti, per esempio, le capovolte di Forza Italia e lo sdoppiamento di Renato Brunetta, il prolifico capogruppo di Silvio Berlusconi alla Camera. L’anno scorso avvertiva che “o passa l'Italicum entro Pasqua o salta tutto”, adesso è invece lo spumeggiante promotore della desistenza parlamentare, dell’Aventino, niente meno. “Noi siamo uniti e compatti contro questa legge elettorale  che produrrà un uomo solo al comando, Renzi”. Tra la prima e la seconda dichiarazione si è consumata la baruffa tra il Cavaliere di Arcore e il boy scout di Palazzo Chigi, si è insomma eclissato il Nazareno. E così quello che prima era buono, adesso è dittatura. E come molte cose di questo paese, s’intuisce che pure la legge elettorale sempre ondeggia, e senza mezze misure, tra il rimedio salvifico e il male assoluto.

 

Ed è da sempre un carnevale pseudo matematico per contorsionisti del cavillo, il dibattito sul sistema di voto. Le leggi vengono scritte e modificate in base a oscure previsioni dei legislatori, dei partiti, dei blocchi di potere parlamentare, delle segreterie. Ciascuno si sente un po’ demiurgo, interprete dei numeri. Ma poiché esiste forse una giustizia divina, o piuttosto sarebbe meglio dire un principio di realtà che sempre s’impone, le attese e i voli speculativi vengono spesso smentiti. Ovvero, si fa una legge per avere un determinato risultato, e se ne ottiene l’opposto.  Il 21 gennaio 1953 alla Camera passava la cosiddetta legge truffa, la Dc l’aveva scritta per conquistare il premio di maggioranza e governare in assoluta pace. Ma il 7 giugno, al momento della verità, il premio di maggioranza non scattò, per appena cinquantasettemila voti. E quando Roberto Calderoli escogitò il famoso Porcellum, non poteva certo aspettarsi che nel 2006 la Casa della libertà avrebbe perso alla Camera dello 0,07 per cento andando sotto della bellezza di settanta seggi, mentre avrebbe vinto al Senato dell’1,3 per cento, ma rimanendo comunque sotto la sinistra. Come pure Mirko Tremaglia, quando ottenne di far votare gli italiani all’estero, non avrebbe mai immaginato che poi gli italiani all’estero avrebbero votato a sinistra. Eterogenesi dei fini, estremo scorno dei cabalisti.

 

[**Video_box_2**]Ma è sempre stato così, e lo è ancora. E dunque Matteo Renzi disegna una legge elettorale, il famoso italicum, pensando che lo possa favorire alle prossime elezioni. Ma pure tutti gli altri, i contestatori,  si esercitano nella medesima arte ingannatrice d’indovinare il futuro attraverso i numeri e attraverso tutti quei garbugli e pastrocchi a base di circoscrizioni, sbarramenti, collegamenti, premi di maggioranza, preferenze, vincoli di genere, quote e scorpori. Così Forza Italia fa la guerra, perché, come dice Laura Ravetto, “con questa riforma si finisce che saremo noi il terzo polo”. E la minoranza del Pd, composta da quei leader, compresi D’Alema e Bersani, che ai tempi del Porcellum accettarono con gioia la logica delle liste bloccate, si oppone alle liste semi bloccate di Renzi soltanto perché avverte il rischio – peraltro fondato ­­– che dietro questa riforma si nasconda la definitiva presa del potere di Matteo dentro il partito che un tempo apparteneva a loro. La festa mascherata, il gran ballo della riforma elettorale, gratta gratta, è tutto qui.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.