Sarajevo nel maggio '96 dopo l'assedio (foto di Quasimodogeniti su Wikimedia Commons)
Piccola Posta
Quando sul cecchinaggio turistico ci limitammo a riferire il fatto
Di quei volontari della caccia all'uomo, di quegli abbienti sportivi del tiro agli animali umani chiunque, a Sarajevo, aveva sentito. Si disse anche di italiani, benché non si volesse crederci
Provo a ricapitolare, dal mio parzialissimo punto di vista, la storia del cecchinaggio turistico sopra Sarajevo. Rinviando, intanto, ai servizi, fotografie e testi, di Mario Boccia, che fu capace allora, con Edoardo Giammarughi per il Manifesto (lui è morto giovane, nel 1998) di passare la linea degli assediati per arrivare alle postazioni degli snajper cetnici e raccontarli, vanterie, ubriachezze, deliri, e fucili e mitragliatrici Zastava. Di quei turisti della caccia all’uomo chiunque, a Sarajevo, aveva sentito: benché fra le alture degli assedianti e la città assediata passasse una distanza mortale, le notizie correvano. Di quegli stranieri, non volontari “ideologici”, “fratelli ortodossi” e simili, ma abbienti sportivi del tiro agli animali umani, si diceva che fossero per lo più svizzeri, francesi, austriaci. Ma si disse anche di italiani (soprattutto di veneti) benché non si volesse crederci. L’Italia, che a Sarajevo ridicolmente non aveva un’ambasciata ma, dal 1994, una “Delegazione Diplomatica Speciale”, fino al novembre del 1996, dispose in realtà di un personale diplomatico e di intelligence di eccellente qualità. Ne facevano parte, oltre a un diplomatico col rango di ambasciatore, Vittorio Pennarola, e all’eccellente e calunniato Michael Giffoni, due ottimi ufficiali del Sismi, uno dei quali purtroppo è morto.
Le informazioni di intelligence nel governo bosniaco facevano capo a Mustafa Hajrulahović (1957-1998), detto significativamente Talijan, l’Italiano, che fu a capo della difesa di Sarajevo, generale comandante del 1° Korpus. Una leggenda per la sua gente: morì di un infarto mentre era in visita a sua madre rifugiata ad Amburgo, al suo funerale prese parte una moltitudine commossa di 50 mila persone. Hajrulalović aveva avuto anche una formazione specifica di intelligence e di antiterrorismo, parlava perfettamente l’italiano – come dice il suo soprannome – e a lui faceva capo il brigadiere bosniaco dei servizi, Edin Subašić, che ne ha testimoniato a Gavazzeni e ai promotori dell’indagine milanese. E Hajrulalović era in strette relazioni con i diplomatici italiani e specialmente coni due ufficiali dei servizi. I quali trasmettevano direttamente e regolarmente i loro rapporti al comando romano.
La notizia secondo cui quell’infame turismo del cecchinaggio cessò nel 1994, dunque dopo essere durato un paio d’anni, perché il servizio italiano trovò il modo di farlo smettere a Trieste e altrove, è del tutto verosimile. Resta la domanda, così stando le cose, sul perché i responsabili del Sismi (non certo i leali funzionari in missione a Sarajevo) non trasmettessero una simile notizia di reato alla magistratura competente. Forse in omaggio al principio di sopire, troncare, o nella convinzione che non ci fossero modi di provare che, una volta arrivati alla loro meta, quei pellegrini davvero sparassero a grandi e piccini. Gli uomini dei servizi a Sarajevo erano persone ragguardevoli, ebbero molti meriti di quelli che si chiamano umanitari e sono umani, ma erano anche molto seri. Se noi, che eravamo là per vedere e raccontare, avessimo avuto informazioni più esatte, o addirittura nomi e cognomi, li avremmo pubblicati un minuto dopo. Ci limitammo a riferire il fatto. Da allora l’abbiamo raccontato sempre di nuovo.