Veduta di Grbavica, Sarajevo (WikiCommons)

Piccola Posta

La (nota) storia del cecchinaggio a Sarajevo, i pacifisti di ieri e quelli di oggi

Adriano Sofri

Chi fossero i turisti della caccia all'uomo era noto solo in alcuni casi, ma che ci fossero era universalmente conosciuto. Una passione sportiva che aveva due versanti: uno "politico" e uno "venatorio"

Benvenuta l’apertura d’inchiesta sui probabili, probabilissimi cittadini italiani che pagavano per fare il tiro a segno dalle alture degli snajper sulla gente inerme di Sarajevo. Mi sembra difficile contare su un esito provato, come dev’essere, a distanza di più di trent’anni: vedremo. Voglio intanto chiosare il tono di sbalordita rivelazione con cui qua e là la notizia è stata accolta e comunicata. Chi fossero i turisti del cecchinaggio assassino da diporto, nome e cognome, era noto in alcuni casi – il più celebre e laido quello di Eduard Limonov – ma che ci fossero, entusiasti e numerosi, era universalmente conosciuto.

Copio il brano di una mia corrispondenza da Sarajevo del 17 maggio 1995, uno dei tanti: “Le notizie sulla brigata di ‘volontari russi’ vengono da più fonti, compreso il racconto di sarajevesi serbo-bosniaci catturati, e la testimonianza di ‘volontari russi’ arresisi a soldati bosniaci regolari in una sortita notturna. A Grbavica, dove il cecchinaggio dei cetnici e la partecipazione venatoria internazionale non vengono nascosti, ma anzi ostentati dalla televisione di Karadžić, anche quando i bersagli sono bambini (bersaglio più piccolo, vanto più grande del tiratore), fra i cecchini c’è anche una squadra di greci, decorati perciò pubblicamente da Karadžić, e il notevole caso di un volontario giapponese. Costui ha spiegato alla tv serbo-bosniaca di essere venuto per guarire da un amore infelice, così la formula: ‘si spara per una delusione amorosa’ va appena corretta nel più altruistico: ‘spara per una delusione amorosa’. Il nazista serbo Šešelj è venuto a sua volta da Belgrado a fare il tiro a segno a Sarajevo, e anche lui è stato mostrato in tv mentre dà prova della sua mira: sotto il suo fucile è caduto nella via un passante. Unico difetto dell’impresa: il morto ammazzato si chiamava Milo, ed era un fornaio di origine serbo-ortodossa, come lo sportivo sparatore”. 


Quella passione sportiva aveva due versanti: uno “politico”, la simpatia per il più forte, il più canagliesco, quello dall’alto in basso, il nazionalcomunista serbista; uno “venatorio”. L’ex Jugoslavia ha tuttora riserve predilette dai cacciatori grossi e abbienti, specialmente bramosi di ammazzare orsi (il contrario del tiro a segno sarajevese, là i bersagli più pregiati erano i più piccoli, i cuccioli umani). La guerra è la caccia all’uomo, e sopra Sarajevo prendevano la cosa alla lettera, a tanto a proiettile. Ricordare che quell’aspetto della aggressione serbista alla Bosnia di Sarajevo era noto e divulgato da tutti i testimoni di allora, giornalisti e cittadini comuni, serve piuttosto a confermare quanto innocente cinismo guidasse le reazioni delle brave persone da noi – dirimpettai a un’ora di volo.

Copio un altro mio brano, di pochi giorni successivo: “Una sinistra che stia dalla parte del pronto soccorso, del diritto e della libertà, dovrebbe incatenarsi nelle piazze, non per accettare, ma per rivendicare l’impiego della forza Onu – e Nato – contro le bande serbo-bosniache, a difesa dei cittadini bosniaci e della Repubblica di Bosnia Erzegovina. Dovrebbe manifestare contro il governo russo e il suo cinico sostegno ai criminali di guerra. Dovrebbe imporre al proprio governo, e alle istituzioni internazionali, la scelta netta fra tener fede agli impegni delle Nazioni Unite attuandoli, o revocare un embargo sulle armi che serve solo a tener fermi e inermi i bosniaci mentre i cetnici dilapidano sulle loro teste una potenza di fuoco spropositata”. Mentre là si consumava impunemente la strage quotidiana, che sarebbe arrivata al mattatoio di Srebrenica, i nostri pacifisti, compresi quelli sinceramente e anche coraggiosamente impegnati nella solidarietà con gli assediati, moltiplicavano denunce e appelli “contro ogni forma di intervento armato”. Storia di ieri, storia di oggi. 


Oggi il turismo in Russia è in forte ripresa. “E in quel clima tra un aperitivo e l’altro, con una offerta eccezionale di cibi e bevande, Vladimir Putin è giunto tranquillamente, non circondato da body gards /sic!/, e ha preso la parola, tenendo un discorso di alto profilo, nel quale ha collegato la lotta per la libertà di informazione di cui Russia Today è un mezzo potente, alla lotta per l’emancipazione dei popoli, e quindi alla ‘operazione militare speciale’ e ai tentativi dell’occidente di nascondere o ribaltare la verità dei fatti. Dittatore, autocrate, ‘nuovo zar’? Io ho visto l’intero teatro (2.500 presenti) levarsi in piedi a tributare un applauso corale al ‘Presidente’, come viene chiamato”. L’autore di questo intrepido diario di pellegrinaggio, che avevo preso per un falso – cercate, leggete tutto – reagisce indignato e offeso all’eventualità di essere ritenuto putinista.
 

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