
A. Sanchez Coello, Don Sebastian, 1554
Piccola Posta
La camilleriana vicenda di un uomo che si finse il re portoghese Sebastiano
Per ricordare lo storico e ispanista Michele Olivari restituisco un suo studio sul personaggio più prestigioso e singolare della vicenda del "sebastianismo". Marco Tullio Catizone, italiano, calabrese, che ricevette lezioni di lingua, storia e costume di corte portoghese per diventare impostore del sovrano
Le Edizioni della Normale hanno raccolto in un importante volume alcuni scritti di Michele Olivari (1949-2022), genovese, storico e ispanista, anarchico berneriano, normalista da studente e da docente, uomo dolcissimo. Cercherò di riparlarne come merita. Oggi voglio citare il suo studio del 1999 su un personaggio singolare della rocambolesca vicenda del “sebastianismo”: il movimento, e il sentimento, suscitati dalla morte del re Sebastiano I del Portogallo, a 24 anni, nel 1578, in una temeraria impresa in Marocco. Il mancato ritrovamento del cadavere e gli effetti sul trono, che sarebbe passato due anni dopo alla corona spagnola, provocarono una sequela di ben quattro falsi Sebastiani, i più diversi e implausibili, ma sostenuti da fior di seguaci interessati o creduli, e tutti finiti impiccati all’ingrosso.
L’ultimo e il più prestigioso fu un italiano, calabrese, Marco Tullio Catizone – non so se Eva Catizone, la sindaca di Cosenza fra 2002 e 2006, abbia indagato su una parentela – che, benché a quanto pare non si liberasse mai di un forte accento calabrese e di un portoghese stentato, guadagnò l’appoggio di notabili laici e soprattutto di chierici di spicco, oltre che di avventori di osterie e piccoli malviventi a Venezia, nel 1598, e l’attenzione allarmata dell’ambasciatore di Spagna, preoccupato di smascherarlo da vivo, perché la leggenda non se ne perpetuasse. Come la sedicente principessa Anastasia di Russia – Ingrid Bergman, nelle cure di Yul Brynner – Catizone ricevette lezioni di lingua storia e costume di corte portoghese, e perfino degli aggiustamenti chirurgici dell’aspetto fisico. Il sostegno crebbe, coinvolgendo la monarchia francese e inglese. I veneziani, che lo avevano messo in galera, se ne sbarazzarono espellendolo alla volta di Firenze, da dove, nonostante altro fervore di frati monaci e altri seguaci, fu imbarcato, nel 1601, per Napoli, dove se ne occupò personalmente il Viceré spagnolo, oberato di dispacci da Madrid che raccomandavano di tenere in vita il “charlatan”, così da poterne dimostrare l’impostura al Portogallo e a tutto il mondo. Soprattutto si temeva che nelle traduzioni da un carcere all’altro il corpo del pretendente venisse sostituito. Il problema stava nelle esitazioni degli stessi inquirenti, sull’eventualità di avere davvero di fronte il re “risorto”. Il Viceré dovette mandare alla corte di Filippo III un ritratto dell’impostore, eseguito da Fabrizio Santafede, tra i più notevoli pittori manieristi napoletani prima dell’arrivo di Caravaggio. Resta il dubbio, su quei funzionari spagnoli, che se avessero appurato la veridicità delle pretese dello pseudo-Sebastiano, si sarebbero sbrigati a farlo andare definitivamente al Creatore: era in palio un enorme impero.
Ma anche le differenze somatiche si spiegavano, agli occhi dei sebastianisti, coi più di vent’anni trascorsi. Gli spagnoli avevano bisogno di arrivare a dimostrare la vera identità del pretendente. La trovarono, non lesinando in spese, in Calabria: nome, famiglia, parenti, ma anche questo non bastava, sospetto com’era di corruzione. Occorreva la confessione. “Procuraremos que por bien o por mal diga la verdad”... Affinché, come si temeva a Madrid, “por mal” non lo facesse crepare, gli furono tributate cerimonie di rispetto, un servitore, doni in denaro. Quello però continuava a firmare con la sigla regia. Finché, messo a confronto con la presunta famiglia, ebbe un’incertezza e, con la promessa di aver salva la vita, si ammise colui che volevano che fosse. “Trovava moglie, suocera, cognato e paese d’origine: Magisano, nei pressi di Catanzaro” – non era come Re del Portogallo, ma insomma. Ritrattò, e i dubbiosi restarono. Un paesano calabrese col nome così solenne, Marco Tullio, e poi mostrava di avere buone letture, e alla vigilia dell’esecuzione si scrisse “un complesso epitaffio latino”. Continuò a proclamarsi Re, fin quasi sul patibolo. Era stato imbarcato sulla galera diretta in Spagna, dopo la condanna, “sopra un somaro, vestito di taffetà paonazzo”, e sconfessava il banditore, a ogni frase sui suoi delitti, e a bordo, in catene, si faceva chiamare dalla ciurma Sua Maestà. Così da indurre qualsiasi spettatore, e qualsiasi ascoltatore contemporaneo del racconto, al paragone con la passione di Cristo... A Napoli la sua leggenda durò almeno per un paio di secoli. Colpisce anche l’assonanza con la congiura calabrese di Campanella.
Ho letto il saggio con una curiosità sempre più attratta, perché ero reduce da una rilettura minuziosa del Re di Girgenti, così da chiedermi che cosa avrebbe saputo tirar fuori Camilleri se si fosse imbattuto in questa storia. A meno che non vi si sia imbattuto...