LaPresse

Piccola Posta

Non era il 1944 ieri a Bruxelles, quando si è deciso del destino di Ilaria Salis

Adriano Sofri

Tra quei venticinque ciascuno che abbia impegnato il proprio voto ha contribuito a salvare una vita. Ciascuno che abbia votato contro ha contribuito a dannarla

Non c’è ragione di interrogarsi sugli altri e perfino giudicarli, se non quella di interrogarsi su se stessi, e giudicarsi. Nel 2018 uscì, in Italia per Sellerio, il libro di Pierre Bayard, “Sarei stato carnefice o ribelle?” (nell’originale: Resistente o carnefice?). L’autore si fondava sulla propria esperienza personale (è nato nel 1954) e professionale, di scrittore, docente di Letteratura e psicanalista, per interrogarsi sulle condizioni in cui ciascuna persona può reagire quando “si trovi di fronte a una di quelle biforcazioni cruciali della nostra esistenza in cui è  in gioco il nostro destino”. E si immaginava nato, come suo padre, nel 1922, così da trovarsi nel centro di un tempo di minacce e sfide tragiche, culminato nell’occupazione nazista della Francia, e nell’alternativa fra l’adesione al regime di Pétain o alla resistenza di de Gaulle, dunque alla indifferenza, o alla complicità, o all’opposizione attiva alla tirannide e alla persecuzione razzista e politica. La domanda non può avere una risposta certa, e può succedere che di fronte a uno di quei bivii di vita e di morte, propria o d’altri, si reagisca smentendo tutti i presupposti apparenti della propria personalità, quello che ci si aspetta da sé… Succede nei tempi di fuoco, quando ne va della vita, della tortura, del rinnegamento di sé, della viltà e del tradimento, e anche, imprevedibilmente, in tempi ordinari, quelli che chiamiamo di pace. Quelli che oggi perdono precipitosamente il loro carattere di ordinarietà, avvicinano i tempi di fuoco e fanno immaginare di nuovo di dover guardare oltre il ponte.


Era solo la premessa. Scrivo infatti di una situazione la più ordinaria e agiata, la più regolata e regolamentare, come quella in cui ieri si trovavano i 25 parlamentari europei della commissione Affari giuridici chiamati a votare sulla revoca dell’immunità alla loro collega Ilaria Salis. Se avessero votato tutti secondo la cosiddetta disciplina di gruppo, ne sarebbe risultata la revoca dell’immunità che, una volta confermata dal voto plenario del Parlamento, avrebbe riconsegnato Salis alla cella e al tribunale di Budapest che grazie a lei imparammo a conoscere. Invece due parlamentari del Partito popolare hanno votato diversamente, assicurando così una maggioranza di un voto alla conferma dell’immunità. Prima di venire al punto, chiarisco di non cadere dalle nuvole, e di sapere che forse, probabilmente, certamente, nella votazione ha pesato uno scambio, con la deputata socialista ungherese Dobrev Klára, accusata in patria di reati di opinione, e soprattutto con Péter Magyar, capo dell’opposizione ungherese nel Parlamento europeo, e membro del Ppe: anche per lui la commissione ha confermato l’immunità, mandando in bestia, dov’era già saldamente, Orbán e la sua banda. Scambio benvenuto comunque.


Ma torniamo al momento in cui il voto dev’essere ancora pronunciato. Ci sono 25 persone, donne e uomini, da cui dipende la sorte di una sola persona. Nel paese che la rivendica è dichiarata terrorista, e la condanna certa che le incombe addosso può arrivare a 24 anni di galera – quella galera. Una volta che la riavesse in sua balìa, l’autocrate ungherese potrebbe soddisfare la propria vanità infierendo o graziandola, a piacere. Potenzialmente, una questione di vita o di morte. Ognuna, ognuno dei giudici imprevisti di Bruxelles “si trova di fronte a una di quelle biforcazioni cruciali della nostra esistenza in cui è in gioco il nostro destino”. Non occorre cambiare il pronome plurale per adattarlo al destino singolare della sola Ilaria Salis. In realtà votare sul proprio prossimo, sulla propria prossima, compromette anche il proprio destino. Che lo faccia in una situazione di tutta comodità, senza alcun rischio per la propria incolumità e per la propria carriera, non ne riduce la drammaticità.

Si può essere ribelli – alla fedeltà di partito, alla pressione dei propri clienti, al proprio piccolo sadismo – o carnefici, aiutanti carnefici. Ilaria Salis non è stata giudicata, accuse e testimonianze contro di lei sono sconfessate o controverse, è documentato un accanimento esemplare nei suoi confronti, e tutto il suo atteggiamento successivo alla liberazione e all’elezione sta a escluderne una pericolosità di azioni e di propositi – sostituita da criteri sommi come “l’antipatia”, o l’abbigliamento. Fuori dal Parlamento europeo, nel chiasso pubblico italiano, aspiranti boia e carcerieri dilettanti, di taglia al minuto, per ora, si sono pronunciati per la sua consegna. Alla leggera. Si sono rivelati (è una contraddizione, la più insidiosa e intima, del sacro divieto della pena di morte: che libera i comminatori di sentenze dalla corresponsabilità diretta col boia, gli alleggerisce il compito). Un solo voto. Dunque ciascuno, ciascuno, che abbia impegnato per lei il proprio voto ha contribuito, in quella confortevole sede, a salvare una vita. Ciascuno, ciascuna che abbia votato contro ha contribuito a dannarla. 


Non era il 1940 ieri a Bruxelles, né il 1944. Ma è successo a 25 eletti di farsi la domanda: “Sarei stato carnefice o ribelle?”. Forse alcuni se la sono fatta, forse altri avrebbero riso solo a sentirla formulare. E’ andata 13 a 12.
 

Di più su questi argomenti: