Ansa

Piccola Posta

La pietà non ha bisogno di postille. Lettera a Mariarosa Mancuso

Adriano Sofri

Cara Mariarosa, i racconti sollevano una storia dal bassorilievo dove giacciono i caduti. Così gli spettatori si aggrappano a un corpo, a un viso, a un nome ridiventano capaci di figurarsi il grande numero di morti. Questo è ciò che ha fatto il film "La voce di Hind Rajab". Una bambina di cinque anni, che forse avrebbe scelto di coprirsi i capelli, forse li avrebbe sciolti al vento, o forse non avrebbe potuto, e sarebbe stata velata, e viva

Le fosse comuni, le cataste degli sterminati, riempiono di orrore e fanno distogliere lo sguardo, mentre la pietà è singolare. L’occhio della misericordia ha bisogno di scegliere, o essere scelto, da una figura e su quella fissare angoscia, simpatia, smania di soccorso. Questo fanno le immagini, e prima di loro i racconti. Sollevano dal bassorilievo di fondo dove giacciono i caduti o languono i malati o si trascinano i deportati, una figura a tutto tondo, un bambino di Varsavia con le mani alzate e la stella sul cappotto, un miliziano che stramazza, una bambinetta vietnamita che corre singhiozzando con le gambette ustionate, una madre algerina impietrita dal dolore, una piccola Leyla sarajevese con l’orbita vuotata da un cecchino. Soprattutto lo spettatore del genocidio ha bisogno di aggrapparsi a un corpo, un viso, un nome, per non essere schiacciato e soffocato dal mucchio smisurato dei morti. 


Fermando lo sguardo su un punto noi compiamo una specie di adozione, che ci lascia di nuovo respirare e piangere, e ridiventare capaci di figurarci anche il grande numero. Nella “Schindler’s List” di Spielberg, al rigore del bianco e nero c’è una sola eccezione ripetuta due volte: la bambina che, fuori dal mucchio, attira lo sguardo di Schindler (e il nostro) col suo cappottino rosso fiammante; e, alla fine, la stessa bambina buttata di traverso sulla carretta degli ammazzati, scontornata nella catasta macabra dalla macchia rossa del suo cappottino. Colorando così antirealisticamente ed espressionisticamente (di rosso!) quella figuretta infantile, Spielberg la elegge a rappresentante dei milioni di grigia cenere. Espediente, appunto, semplice fino all’ovvietà, al rischio dell’effetto facile: e, al contrario, forte e sconvolgente. E’ quasi una citazione dell’episodio di Cecilia nel capitolo XXXIV dei “Promessi sposi”. Tra i cortei di monatti e i carri colmi di sacchi funebri lo sguardo di Renzo è attratto a fissarsi su qualcosa. “Il suo sguardo si incontrò in un oggetto singolare di pietà, di una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo”. La madre di Cecilia porta in braccio la sua piccola morta al carro dei monatti. “Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta: Ma tutta ben accomodata… con un vestito bianchissimo”. 


E’ l’espediente che la realtà, non un o una regista, presentò con la maglietta rossa di Alan Kurdi, sulla spiaggia turca di Bodrum, mentre cercava di fuggire dalla Siria nel 2015. Una regia, la più imprevedibilmente lucida e spietata, ha diretto la ripresa filmata e la divulgazione su Telegram dei due bambini Bibas, Kfir, 9 mesi, e Ariel, 4 anni, rapiti in braccio alla loro madre Shiri, 32 anni, nel kibbutz di Nir Oz il 7 ottobre, e restituiti, i cadaveri, nel febbraio scorso. Non tutti, perché al posto del corpo della madre c’era quello di una sconosciuta palestinese. Il padre, Yarden, rapito anche lui, era stato filmato mentre un altro ostaggio era forzato a dirgli che i suoi erano morti, e poi rilasciato. La stessa lettura di migliaia di nomi propri di bambini uccisi, 16 israeliani e 12.211 palestinesi, insieme, da parte del cardinale Zuppi, dopo l’appello congiunto con il presidente della comunità ebraica bolognese Daniele De Paz, è un modo di restituire un’individualità al mucchio dei morti. 


Questo mi pare che abbia fatto ora Kawthar ibn Haniyya col film “La voce di Hind Rajab”. Aveva una grande storia. Non un cappottino rosso o un vestito bianchissimo, ma una voce registrata per un tempo interminabile, un’auto di morti e crivellata di proiettili – crivellata, l’ho vista solo adesso, dopo il rumore del film. Non conoscevo la regista tunisina, ho visto che ha una lussureggiante capigliatura. 


Questo volevo dirti, cara Mariarosa M., a proposito del problema che hai posto nel tuo colonnino sul film, che “far singhiozzare non basti per fare cinema”. Per una coincidenza del tutto involontaria, immagino, ieri anche Marco Archetti ha scritto sopra “La pena inflitta dei lacrimatoi: il romanzo nella trappola del sé”, segnalando lui la distanza spesso mancata fra sintomatologia dei propri dolori e letteratura, nella narrativa contemporanea. Facendo venire il dubbio che il Foglio abbia inaugurato una campagna anti lacrimogena. Tu, Mariarosa, non dici che il film è brutto, molte altre e altri dicono che è molto bello. Tutte e tutti dicono che è stato applaudito per 24 minuti (quasi tutti, qualcuno 23): che non è risolutivo a favore, ma ancor meno a sfavore. 24 minuti per 70 di passione di una bambina di cinque anni. Io non l’ho visto, ma il rumore mi ha fatto imparare molto. Sono contento che abbia meritato il premio più significativo. Volevo dire anche che il ragionamento che ho svolto qui sopra fu da me pubblicato il 20 febbraio del 1999, dunque 26 anni fa, su Repubblica. L’ho copiato perché mi pare appropriato, e perché mostra che si può scrivere esattamente quello che si pensa in tempi diversi e su giornali diversi, senza coinvolgere la responsabilità del giornale su cui si scrive o esserne coinvolti – salvi i giornali che facciano eccezione, falangi macedoni di vendicatori.


Poi, cara Mariarosa, il tuo rapido pezzo aveva una vera stupidaggine che suonava crudele, sulla bambina Hind e i suoi cinque anni, e il destino che l’avrebbe attesa “di lì a qualche anno, quando le avrebbero imposto di non mostrare neppure una ciocca di capelli”. Chissà, infatti. Forse avrebbe scelto lei di coprirsi i capelli. Forse si sarebbe presa la libertà di scioglierli al vento. Forse dei suoi padroni maschi (o no) le si sarebbero imposti con la forza, e con successo: in questo triste caso, sarebbe stata velata, e viva. Hai anche deprecato che nessuno dei giornalisti ammiranti abbia ricordato la carneficina del 7 ottobre al rave. Sei pessimista, vedo: chi abbia sentito la commozione straziante della tragedia della famiglia Bibas – come non sentirla – non avrebbe dovuto postillarla con l’ammonimento sulle migliaia di bambini di Gaza uccisi dopo il 7 ottobre.

Di più su questi argomenti: