
(foto LaPresse)
Piccola posta
La sindrome della fraternizzazione e un treno per tornare a casa
Il mezzo era pronto, ma vuoto e con le porte chiuse. I ritardi, le discussioni, i libri regalati, una Tesla comprata usata e gli eventi di una notte
Ero a Pisa per un libro, martedì, gran bella serata. Per tornare indietro avevo un treno, l’ultimo, alle 22,30. Un accelerato, come si diceva una volta. Il treno, lustro che sembrava appena uscito dalla fabbrica, era pronto sul binario 10. Era vuoto e aveva le porte chiuse, e passeggeri affollati davanti a ogni vagone. Situazione inedita che, dopo un po’, moltiplicava le domande senza risposta e le facce un po’ perplesse un po’ incazzate di italiani e stranieri, anche una comitiva di ragazze spagnole. Il tempo passava senza alcuna comunicazione, la perplessità diminuiva e l’incazzatura cresceva. Si riaffacciava imprevedibilmente, specialmente fra i più attempati, il romantico ideale dell’assalto ai treni. Poi, dopo un’oretta, ha prevalso la sindrome della fraternizzazione. Due giovani vestiti da ferrovieri raccoglievano una larga solidarietà perché dovevano arrivare a Firenze a guidare un loro treno merci, e nessuno diceva niente nemmeno a loro (ho imparato così che esiste una branca di Trenitalia che si chiama Mercitalia). Finché sono scomparsi nella notte, attraversando i binari, accompagnati dall’augurio degli appiedati.
Intanto si apriva il dibattito. Un giovane, simpatico, molto d’ordine, che doveva andare a lavorare a San Miniato, ha sentenziato: “Siamo in Italia!”. Ha precisato: “In Cina se sgarri di dieci secondi…”. Ha anche brontolato contro i ragazzini di undici-dodici anni che vanno a scuola coi treni regionali senza il biglietto, giurava di averlo constatato. Ho azzardato: “Anche tu hai avuto undici-dodici anni”, e lui: “Mio padre mi faceva l’abbonamento, e non ho mai sgarrato!”. Era sopraggiunto uno di mezza età, e ha dichiarato che è tutta colpa degli stranieri, anche quel treno sigillato senza spiegazioni. Una ragazza – vent’anni, ne dimostrava 17, sigaretta e bicicletta, studentessa-lavoratrice serale, di nome Silvia, le ho detto poi in che stradina pisana Leopardi aveva scritto “A Silvia”, si è mostrata interessata – ha reagito all’uomo annunciandogli che le razze non esistono. Ma i popoli sì, e nel Friuli lavorano quasi tutti, a Napoli invece – e che lui era di Napoli. Ha aggiunto che era chiaro che la ragazza era di sinistra. E ci mancherebbe altro, ha detto lei. Ero pieno di libri perché a 15 anni di distanza continuano a spedirmeli alla Normale, e ne ho regalato uno a Silvia, e ho chiesto al napoletano ostile ai senegalesi perché in una serata già piena di ritardi stanchezze e rassegnazioni volesse infierire, e lui: “Eccone un altro di sinistra!”. E ci mancherebbe altro, ho detto io. I senegalesi, gli ho detto, sono più belli, alti e giovani di noi due.
Il bello è che sulla panca di ferro a strisce era seduto accanto a me un giovane uomo, piuttosto coperto come chi voglia almeno dormirci sopra, agli incidenti, e da tutti ignorato, benché fosse, come a questo punto ha annunciato, nigeriano, bella faccia, un po’ in italiano un po’ in inglese, ha accennato a come sia dura cavarsela dalle sue parti. Ho vantato di avere amici nigeriani – come nelle frasi celebri – perché senza essere andato in Nigeria ero andato in galera. Allora Silvia ha vivacemente annunciato che anche suo padre era andato in galera, a suo tempo. Paolo, che veniva dal Portogallo, per amore, ed è un musicista e un docente di sociologia, di una mezza età portata molto bene, ha riferito di essere andato alla Polfer e di aver scoperto che di quel treno ermeticamente chiuso al pubblico non sapevano niente, e solo allora avevano annunciato un ritardo di 115 minuti. Era girata la voce che fosse mancato il capotreno – “siamo in Italia!” – poi la voce, molto più triste se fosse vera, che una capotreno era stata aggredita, e si aspettava l’arrivo di un supplente svegliato nella notte a Firenze, si sa come corrono le voci. Ho regalato a Silvia un altro libro. A mezzanotte le porte si sono aperte e il treno è partito, un po’ in anticipo sul ritardo annunciato. Paolo e io ci siamo informati ulteriormente sulla vita di Silvia, che purtroppo è scesa al suo paese, a mezza strada, coi libri e la bicicletta. L’altoparlante continuava ad ammonire di obliterare il biglietto, e di fare attenzione alla discesa. Paolo abita a Porta Romana, sulla strada del mio taxi – era passata l’una da un pezzo – e al posteggio della stazione una signora mi ha proposto di fare una piccola deviazione per lasciarla a casa sua, in direzione dell’Impruneta: era franca, in gamba, mi dava del tu, come no.
Il taxi era una Tesla piuttosto formidabile ai miei occhi, “l’ho comprata usata”, ha sminuito il tassista, il quale era per giunta un coetaneo e conoscente di Paolo, che è sceso a Porta Romana, dove aveva anche lui la sua bicicletta, poi la signora, a Pozzolatico, dove, insegnante pensionata, fa scuola gratuita a giovani stranieri e altre cose solidali in Oltrarno con donne africane, e infine a casa mia, alle due suonate, ed è stato bellissimo provare la guida autopilot nelle strade deserte, ormai il guidatore e io eravamo amici e mi sono dimenticato il suo nome, se mi legge si faccia vivo.