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Piccola Posta

Quando possiamo dire che una strage è “di Stato”?

Adriano Sofri

Da Portella della Ginestra a Piazza Fontana. Obiezioni e conferme

Due anni fa Emanuele Macaluso ripubblicò, aggiornandola, una ricostruzione della strage di Portella della Ginestra, 1° maggio 1947, che aveva scritto per l’Espresso di Claudio Rinaldi nel cinquantenario. Era un testo secco, una cinquantina di pagine, animate dalla passione civile e dai ricordi personali. Secco era anche il giudizio, emesso nel testo e nel titolo: “La strage di Portella è la prima strage di Stato”. Nella riedizione del novembre 2018 (ed. Castelvecchi) al titolo, “Portella della Ginestra. Strage di stato”, l’autore aveva aggiunto un punto interrogativo.

 

Lo spiegava, nella nota introduttiva, “Ripensando alla Strage e allo Stato”, con la lettura di un articolo di Paolo Mieli sul Corriere (25 aprile 2018) intitolato a sua volta “Il processo (infinito) allo Stato” e occasionato dalle notizie sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, e sulla pretesa dimostrazione che essa avesse “toccato i massimi vertici dello Stato”. Alla vigilia del cinquantenario da Piazza Fontana, Mieli osservava che la dizione sulla “strage di Stato” era diventata ricorrente, “ma nomi riconducibili ai ‘massimi vertici’ non ne sono venuti fuori, mai. Mai”. E aggiungeva: “Nemmeno una volta che si sia riusciti ad arrivare all’identificazione di qualcuno che ben più di un ufficiale infedele ci avvicinasse a quei ‘massimi vertici’”. Dunque Macaluso, il cui rigetto dell’interpretazione per cui Amato, Ciampi, Conso, Scalfaro, “si piegarono” al ricatto della mafia è nettissimo, decide di mettere il suo vecchio giudizio su Portella della Ginestra alla prova delle “fondate” obiezioni di Mieli, per ribadirlo. Ma mi interessa ora riprendere il punto a proposito di piazza Fontana, a 51 anni, fra pochi giorni, da quella che è diventata proverbialmente la Strage di Stato. Il famoso libro collettivo di “controinformazione” che si intitolò così ebbe il merito incancellabile di denunciare il disegno terrorista di fascisti e apparati dello Stato per addossare ad anarchici e antifascisti la responsabilità delle bombe e creare le condizioni per un colpo di mano o una stabilizzazione reazionaria. Da allora ricerca e informazione sul 12 dicembre e sulla morte di Pinelli hanno accumulato risultati enormi, testimoniati da una mole di pubblicazioni di qualità uscite appunto nel cinquantenario.

 

Altre se ne annunciano, come il primo, 1.104 pagine, di quattro volumi di pura documentazione, “solo i fatti”, di Massimo Pisa, “Lo Stato della strage. 1969: i precedenti, le bombe, il contesto italiano e internazionale” (Biblioteca Clueb), in uscita giovedì prossimo. Riassumendo all’estremo: preparazione della pista anarchica e conduzione ferrea dell’indagine sono dell’Ufficio Affari Riservati di Federico Umberto D’Amato, trasferito coi suoi massimi dirigenti nella Questura di Milano, ai cui ordini è collocata, con fervida obbedienza, la polizia. Di questa condizione è al corrente il governo, almeno nei ministri più influenti o competenti. Fino ad alcuni anni fa questo contesto è occultato alla magistratura, le cui sentenze, divenute definitive, l’avevano ignorato del tutto, e all’opinione pubblica. Anche quando la verità è emersa, la magistratura l’ha ignorata, e continua a ignorarla, benché non vi sia prescrizione. Basta a ritenere toccati i massimi vertici? A dare alla strage il nome di strage di Stato?