Piccola Posta

Quattro anni di Trump ed è cambiata alle radici la reputazione dell'America

Adriano Sofri

La sensazione è più nitida dopo il confronto con Biden: un secondo mandato del presidente segnerebbe il passaggio degli Stati Uniti dalla parte delle potenze spregiatrici dello stato di diritto, della cultura e dell’informazione libera

Ho guardato il confronto fra Trump e Biden e non saprei aggiungere niente a quello che i commentatori decenti ne hanno detto. Ho tuttavia avuto una più nitida sensazione del cambiamento che si è andato compiendo nell’idea dell’“America”, che è il nome usurpatore con il quale siamo stati abituati a chiamare gli Stati Uniti. E’ così nel titolo di Tocqueville, Della democrazia in America, che a quell’idea ha tanto contribuito. La reputazione di un paese è una cosa profonda, sedimentata attraverso il tempo. L’antiamericanismo è diffusissimo nel mondo, e diffuso e tenace anche nella nostra parte di mondo. (Sul suo modello si è disegnata l’avversione allo Stato di Israele, che ha esercitato un effetto di ritorno).

 

L’antiamericanismo dalle nostre parti, salve le eccezioni più ottuse, ha distinto fra la potenza industriale e militare, considerata neoimperiale, tacciata di far da gendarme al mondo, e il modo di vita americano, il suo cinema, la letteratura, la musica, le città, lo sport, la mescolanza di genti. La presidenza di Obama sembrò consacrare, nel punto più alto, il successo di quel modello: Obama scendeva la scaletta dell’aereo presidenziale con un’eleganza musicale, sportiva, cinematografica, invitante, e Michelle rendeva perfetto il quadro. Strada facendo, il quadro si incrinava e i suoi attori, senza perdere troppo lo smalto, apparivano un episodio, subìto rancorosamente dall’America profonda che covava la rivincita.

 

Donald Trump è apparso come la somatizzazione opposta, il campione esemplare, proprio nella ridicola trivialità, dell’America profonda. Trump scende dall’aereo come un grossista della ricettazione, e peggio quando si tira dietro la riluttante Melania. Sono passati quattro anni e la reputazione dell’America, gli Stati Uniti, cambia dalle radici. La simpatia per il cinema, la musica, lo sport e il resto non è svanita, ma è riservata a un’altra America, delle grandi manifestazioni, del coraggio civile, delle donne, dei neri (al costo di bigottismi, del resto, e di intolleranze): così come si simpatizza in altri stati autocratici per la società civile conculcata e coraggiosa. Come in una Turchia, quasi. Non è Trump l’outsider, il corpo estraneo, ma i suoi oppositori, i loro corpi.

 

Un cambio di reputazione è qualcosa di poco meno che irreparabile. È anche la posta più impalpabile ma più grave di certe elezioni. In Toscana è appena successo, e se pure l’idea della Toscana sembri a volte nuocere al suo beninteso progresso, resta che la Toscana sia soprattutto un’idea, e per ora l’ha rivendicata. La rielezione di Trump, se venisse dopo che lo si è provato e pesato, segnerebbe il passaggio dell’America dalla parte delle potenze spregiatrici dello stato di diritto, delle donne e delle persone di colore, della cultura, dell’informazione libera, le potenze dell’incompetenza e del cinismo. Dell’evasione delle tasse, dei morti ammazzati di polizia, dei duecentomila morti ammazzati di pandemia, dei 70 mila dollari all’anno di parrucchiere. Di un paese barbaro.

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