Nostalgia canaglia

Adriano Sofri

Arrendersi al ricordo, alla sua dolcezza e ai suoi rimorsi, chiude la porta al futuro

A maggio il giardino fiorisce nonostante me, nonostante la gramigna e la parietaria. Spesso non ci sono, oppure è come se non ci fossi, e i fiori non hanno nessuno che li guardi. Me ne accorgo, mi vergogno, allora li guardo, li fotografo anche: sono come quelli dell’anno scorso, meno numerosi, meno rigogliosi, più fieri. Ho un vecchio gelso, più che secolare, il tronco è spaccato in due e svuotato ma a ogni primavera si copre di una chioma temeraria e ancora ha la forza di riempirsi di frutti bianchi. Non ce la fa a farli maturare e un po’ cadono in terra, e i suoi rami pullulano di uccelli venuti alla raccolta, merli, passeri e a ora fissa nugoli di storni, conoscono il giardino e il suo calendario meglio di me. Era diverso, il giardino, era meraviglioso.

 

Ieri pioveva ancora, nel pomeriggio è venuto fuori il sole e la tentazione del rimpianto. Io non voglio scrivere ancora della vita com’era, della giardiniera, della casa – dire “non ancora” si avvicina a dire mai. La casa è stata frugata e saccheggiata, il pochissimo che sembrasse smerciabile, da ladruncoli e ladri, non ce l’ho con loro, solo non ho più avuto voglia di rifare ordine, del resto ordine non ce n’era già, da troppo tempo sono solo. Ogni tanto cedo, quasi per caso, passando, alle lettere ammucchiate nei cassetti, alle fotografie sparpagliate nelle scatole da scarpe, ai diari: poi per giorni non riprendo una vita ordinaria, mi trascino come un barbone.

 

Arrendersi al ricordo, alla sua dolcezza e ai suoi rimorsi, chiude la porta al futuro, anche al futuro senza ambizioni che è del vecchio. Ho ritrovato il libro di un vecchissimo che al ricordo si era consegnato orgogliosamente, e perciò era al futuro che non intendeva arrendersi. Giuseppe Sgarbi è morto l’anno scorso. Nel 2016, quasi novantacinquenne, aveva pubblicato un libro d’amore per la sua donna, alla sua donna. Volevo scriverne, poi non so, ero fallito, o era fallito il giornale su cui scriverne. Alla fine dice: “Mi fermo qui, dunque. Se capiterà… rifarò volentieri qualcuna delle cose che abbiamo fatto insieme. Niente di più, però. Tornare indietro non mi dispiace. In fondo è un po’ come ritrovarti. E’ andare avanti che non mi interessa. Non più. Non senza di te. Il passato va bene, perché nel passato ci sei anche tu. Di un futuro nel quale tu non ci sei, invece, non so davvero cosa farmene. Non voglio aggiungere niente alla nostra vita. Non un passo, non un panorama, non un’amicizia, non un sapore. Niente”.

 

Anche quel vecchio signore ha scoperto il giardino e i fiori senza destinataria: “Poco fa… ero uscito a prendere una boccata d’aria; vedessi il glicine: non immagini che fioritura ha fatto; ti dico solo che il pozzo è scomparso, avvolto da una nuvola lilla, e il profumo, poi: arriva fino in casa!”. Ho cercato un altro libro, è di André Gorz, Lettera a D. Storia di un amore (Sellerio 2008). D. era Dorine, sua moglie, sono morti ambedue nel 2007, più che ottuagenari, suicidi, lei era molto malata. La lettera è dell’anno prima, ha un inizio bellissimo: “Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacinque chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie”. Sono molto diverse, le due lettere, naturalmente. Gli uomini che scrivono alla propria donna perduta prendono più o meno consapevolmente due strade. Dicono: tutto quello che sono diventato, che sono stato, lo devo a te. Dice Gorz: “Tu ti sei data tutta per aiutarmi a divenire me stesso”. C’è come un’involontaria avarizia. Oppure dicono: tu sei stata tutto quello che ha contato per me. Così è per Sgarbi. Lei mi parla ancora, è il suo titolo (Skira). Lui non commemora un amore, lo continua, come nell’intervallo fra una presenza passata e una prossima.

 

Una volta, dice, aveva già più di novant’anni, e lei lo sorprende una mattina in cucina e gli chiede: “Che cosa scrivi?” “La nostra storia”, risponde. E comincia a leggergliela. “Ti sei fermata alle mie spalle ad ascoltare. Di tanto in tanto, sentivo la tua mano cercarmi la nuca… ‘Le piace’, pensavo”. Anche ora scrive per risentire la mano sulla nuca, scrive per pensare: “Le piace”. Siamo in pochi a poterci permettere un amore così, la lunga fedeltà e la dedizione unica. Ma succede anche a noi di stare nella casa come ospiti disordinati di una padrona che è dovuta partire. Dev’essere per questo che non cediamo all’invito ragionevole a traslocare, per un’abitazione più adatta, meno ingombra, magari un residence di città, e la teniamo gremita con la sola raccomandazione ai successori di bruciare un po’ di carte, che noi non vogliamo farlo. Ci fanno ridere le frasi sul padrone di casa, essere padroni a casa nostra: siamo noi che le apparteniamo, più effimeri del vecchio gelso saccheggiato, più abusivi degli storni saccheggiatori. Il vecchio Sgarbi, che ha una casa piena come un deposito di museo, si accorge ora delle cose che sono lì da sempre e gli sembra di non aver mai visto, e chiede se sono sempre state lì, perché non aveva occhi che per lei, la sua donna – la sua casa. Fino dalle prime volte, dai primi sguardi. “Come quando sei bambino e vedi cadere la neve. Non hai mai visto niente di così bello prima… Tutto quello che vuoi è uscire e correre incontro alla neve”. E poi sarai sempre parte di quell’acconto di Paradiso – pudica com’è, discrezione di speziale, è una citazione di Dante.

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