Wole Soyinka

Il pegno di Soyinka e la cialtroneria di Assange

Adriano Sofri

Wole Soyinka, poeta e Nobel, distruggerà la sua Green card 

Ogni tanto, in certi confronti politici o civili che si considerano decisivi per la posta in gioco, o per la propria personale vicenda, si cede alla tentazione di dichiarare che se si sarà sconfitti si cambierà paese, o addirittura continente. Poi non si mantiene l’impegno, e questo vuol dire che era stato soprattutto un modo retorico di rafforzare il proprio proposito, e che la posta non era così fatale. Poiché la posta può diventare davvero fatale, e il passato, per esempio il nostro, ha una immemorabile esperienza dell’esilio, è consigliabile rinunciare a pronunciare leggermente quella promessa, e se no sentirsene più legati.

Wole Soyinka, 83 anni, è il poeta e scrittore nigeriano premiato dal Nobel nel 1986 che fu incarcerato nel suo paese durante la guerra civile negli anni ’70 e negli anni ‘90 condannato a morte per alto tradimento dalla dittatura allora vigente. Ha vissuto in molti luoghi del mondo e soprattutto negli Stati Uniti. Durante la campagna presidenziale Soyinka ha pensato che la posta in gioco valesse la pena di pronunciare quel proposito. Si può pensare che non credesse davvero che Donald Trump e le sue marchiane uscite razziste potessero prevalere. Hanno prevalso e Soyinka ha deciso di osservare l’impegno, distruggendo la propria Green card. Frequenterà gli Stati Uniti, ha detto, ma come gli altri cittadini del mondo, mettendosi in fila per ottenere il visto d’ingresso.

Penso che abbia fatto bene e che il suo passato testimoni della serietà del suo gesto. Penso anche che il suo esempio suggerisca a chiunque sia tentato di ricorrere alla minaccia di abbandonare un paese o un continente di cui sia cittadino o ospite, di prendersi sul serio. E di rassegnarsi, oltretutto, all’idea che eventi impensabilmente funesti, come l’elezione di Donald Trump, possano davvero compiersi. Infine, il gesto simbolico di Soyinka fa risaltare per contrasto la cialtroneria del gesto di Julian Assange, il quale ha ritirato alla svelta la sua promessa di consegnarsi agli Stati Uniti, col pretesto che la grazia di Obama a Chelsea Manning diventerà esecutiva solo a maggio. Assange deve essersi detto che Obama non avrebbe graziato Manning, così come Soyinka (e quasi tutti noi) si era detto che Trump non sarebbe stato eletto: le cose impensabili succedono. Dunque si può spararle grosse, ma a condizione di pagare pegno.

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