Matteo Renzi (foto LaPresse)

La personalizzazione alla rovescia del referendum

Adriano Sofri

Vediamo se ho capito. Matteo Renzi e Maria Elena Boschi e qualcun altro con loro riescono a far votare una legge di riforma costituzionale e, sentendo la vittoria in tasca, immaginano il referendum che dovrà confermare o respingere la riforma come poco più che una formalità

Vediamo se ho capito. Matteo Renzi e Maria Elena Boschi e qualcun altro con loro riescono a far votare una legge di riforma costituzionale e, sentendo la vittoria in tasca, immaginano il referendum che dovrà confermare o respingere la riforma come poco più che una formalità. Con questa convinzione, un po’ illusoria, un po’ giustificata dall’atteggiamento tenuto da altre componenti parlamentari nel corso delle discussioni sulla legge, commettono l’imprudenza di intestarsi una conferma che danno per scontata, quello che poi sarà chiamato “errore di personalizzazione”. Per reazione a quell’errore e per un vivo bisogno di sussistere, molte ed eterogenee forze politiche e di opinione si gettano a capofitto sulla personalizzazione, semplicemente invertendola: Renzi non è più il benemerito, ma il malaugurato autore della riforma. L’operazione ha un successo insperato e rivela un forte logoramento della popolarità di Renzi, che ha cause diverse – governare è impopolare, il suo personale temperamento è a sua volta impopolare, e infine qualunque occasione di fare di qualcuno un nemico pubblico è benedetta dal sentimento prevalente nei popoli contemporanei. Renzi ne subisce una evidente demoralizzazione e si mostra palesemente in affanno. Il tempo che passa certifica una crescente adesione al ripudio della riforma – il No al referendum – e anche alla prospettiva di “mandare a casa” Renzi, che lui stesso aveva incautamente evocato. I sondaggi danno un vantaggio crescente del No che finisce per convincere lo stesso Renzi, benché non sia mai detto. A questo punto la personalizzazione alla rovescia rende euforici i promotori del No, che forse commettono a loro volta l’errore di avere la vittoria in tasca. Infatti Renzi non sembra più tanto contare su una vittoria del Sì, ma su una sua percentuale abbastanza alta da permettergli di rivendicarla e usarla per le prossime sfide. Dopo essersi criticato per l’iniziale spensierata personalizzazione, Renzi punta di nuovo alla propria personalizzazione, descrivendosi, come in buona parte è, solo contro tutti, sicché la sconfitta assoluta nel referendum, cioè la prevalenza numerica dei No, si tramuti in una vittoria relativa, cioè in una percentuale di Sì – il 48, nella migliore delle ipotesi – che sarebbe interpretata come il suo personale seguito e il suo nuovo partito: un Partito della Nazione ridimensionato, o piuttosto un “Partito del Sì” sufficiente a dargli una maggioranza relativa in elezioni in cui la scelta sia dispersa fra i vari partiti e non plebiscitaria come nel referendum. Che riesca o no, questo calcolo (ammesso che ci sia, naturalmente) ratifica abbastanza amaramente una divisione sociale, politica e civile lungo il versante del Partito del No e del Partito del Sì, che altrimenti si sarebbero auspicati capaci di rimescolarsi, e una rinuncia abbastanza definitiva a quella grossa porzione della sinistra politica e sociale che si è innamorata della radicalità, o almeno della drasticità, del No. Ho capito bene?

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