Il manifesto incriminato

Testa o Croce?

Rocco Todero

A Genova un manifesto sull'obiezione di coscienza viene censurato dal Consiglio di Stato. A rimetterci è il dibattito libero in una società democratica e pluralista

La consultazione delle sentenze del Tar e del Consiglio di Stato consente di apprezzare spesso la fragilità sulla quale si reggono le nostre libertà fondamentali. Nelle ultime settimane il Tar Liguria e la quinta sezione del massimo consesso amministrativo hanno dato plastica rappresentazione di quanto sia precario l’equilibrio che consente l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.

 

L’immagine che vedete campeggiare sotto il titolo dello scritto che state leggendo riproduce un manifesto predisposto dall’Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti – UAAR, Circolo di Genova della Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti – per pubblicizzare una campagna sulla corretta informazione necessaria per esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza.

 

Come si può vedere la foto accosta un medico, riconoscibile dal camice e dallo stetoscopio ed un prete, facilmente individuabile dall’abito talare e dal crocifisso pendente in bella vista. Ognuno dei due soggetti è rappresentato in maniera asettica, senza alcuna particolare deformazione, alterazione o caricatura che possa svelare l’idea di un esplicito (o velato) giudizio negativo sulle figure che si riscontrano nel manifesto. In bella mostra si può leggere l’interrogativo “Testa o Croce?”, l’hashtag “non affidarti al caso”, e l’invito “chiedi al tuo medico se pratica qualche forma di obiezione di coscienza”.

 

L’Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti ha chiesto al comune di Genova di potere affiggere i manifesti sugli impianti pubblicitari di proprietà della pubblica amministrazione, ma ha ricevuto un secco diniego motivato dalla presunta lesività che la diffusione del messaggio promozionale arrecherebbe alla libertà di coscienza individuale e ai diritti delle confessioni religiose. Il bozzetto è stato respinto e l’associazione istante è stata invitata a provvedere ad una revisione grafica e linguistica.

 

L’Unione si è rivolta al Tar Liguria che ha annullato il divieto del Comune poiché la limitazione imposta alla fondamentale libertà di manifestazione del pensiero dovrebbe trovare giustificazione esclusivamente nella sicura e certa lesione di beni giuridici di rilievo costituzionale.

 

Tuttavia il Giudice di primo grado non ha riscontrato la lesione di alcun interesse apprezzabile, poiché il manifesto in questione assocerebbe correttamente il simbolo della fede cattolica alla tradizionale posizione teologica e dottrinaria contraria all’aborto e non ne pregiudicherebbe in alcun modo l’onore e il decoro.

 

Il messaggio pubblicitario, inoltre, non lederebbe, secondo il Tar, il comune buon gusto, la dignità umana, l’integrità della persona e non comporterebbe discriminazioni dirette o indirette, né conterebbe elementi d’incitamento all’odio basato su sesso, razza, origine etnica, religione o convinzioni personali e, pertanto, il regolamento del Comune di Genova sulle affissioni risulterebbe scrupolosamente osservato.

La limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, in definitiva, non troverebbe alcuna giustificazione, soprattutto perché il messaggio dell’Unione degli Atei non conterrebbe elementi dai quali potere ricavare la volontà di denigrare la religione cattolica o di rappresentarla in maniera non conforme alle posizioni culturali che la stessa diffonde apertamente. Il Comune di Genova non ha prestato acquiescenza alla sentenza di primo grado ed ha appellato la decisione davanti al Consiglio di Stato, il quale ha ribaltato radicalmente quanto deciso dal Tribunale ligure.

 

Per i giudizi di Palazzo Spada il manifesto approntato dall’Unione degli Atei supererebbe “i limiti generali della continenza espressiva giacché non si ferma a valutazioni misurate, ma senza necessità trasmoda in valutazioni lesive dell’altrui dignità morale e professionale”. Avrebbe avuto ragione il Comune di Genova, pertanto, a negare l’affissione del manifesto perché, in questo caso, la limitazione della libertà di manifestazione del pensiero troverebbe giustificazione anche nella discriminazione religiosa. Il Consiglio di Stato non ha spiegato quali elementi grafici o quali frasi avrebbero oltrepassato il limite della “continenza”, ma ha semplicemente affermato che anche per la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sarebbero lecite le limitazione alle libertà fondamentali che “costituiscono misure necessarie, in una società democratica, […] per la protezione della reputazione o dei diritti altrui”. Insomma, il manifesto, così come lo vedete, non merita di essere diffuso.

 

Non è la prima volta che nel nostro paese si preferisce comprimere la libera manifestazione del pensiero su temi sensibili come quello dell’aborto invece che consentire l’esposizione dei più diversi punti di vista. Già un anno fa un altro manifesto affisso per le strade del Comune di Roma, questa volta raffigurante un feto e la frase “Il tuo cuore batteva già alla terza settimana”, suscitò numerose e vivaci polemiche pressoché tutte indirizzate a imporre il divieto d’utilizzare gli spazi pubblici per la manifestazione del pensiero contrario all’aborto.

 

A questo punto, però, la domanda sorge spontanea: si tratta davvero di limitazioni necessarie in una società democratica e pluralista che necessita del dibattito e del confronto alla stessa stregua del lievito principale per la maturazione di opinioni libere e responsabili?

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