Bruno Contrada (foto laPresse)

Il caso Contrada e l'atavica cultura illiberale della giurisprudenza italiana.

Rocco Todero

Perché quello di Bruno Contrada è l'ennesimo caso di cui l'Italia dovrebbe vergognarsi.

L’epilogo della tormentata vicenda giudiziaria di Bruno Contrada innanzi alla Suprema Corte di Cassazione rappresenta l’irrimediabile debacle della cultura giuridica italiana o almeno di quella parte che è veicolata, attraverso le pronunce dei Tribunali nazionali, sotto il generico e pomposo nome di “giurisprudenza”.
E’ stata, infatti, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo e non già un giudice nazionale a riaffermare tempo addietro, anche per l’ex numero due del Sisde, l’elementare e fondamentale principio giuridico del nullum crimen sine lege, impartendo una lezione di civiltà giuridica a tutti quei magistrati italiani che hanno ritenuto e ritengono, ancora adesso, si possa condannare un essere umano per violazione di un precetto penale (il concorso esterno in associazione mafiosa) che non è sufficientemente chiaro e specifico (che non esiste in sostanza) nel momento stesso in cui la condotta incriminata è stata compiuta dall’imputato.

 

Un principio, quello di stretta legalità, che trova, a parole, cittadinanza anche all’interno del nostro ordinamento giuridico e il cui fondamento si radica senza alcun dubbio nei valori essenziali della Carta Costituzionale. Non vi è manuale di diritto che non annoveri fra i canoni fondamentali della cultura giuridica nostrana il principio di legalità in materia penale, il quale, come è evidente, vale a sottrarre qualsiasi individuo dalle tenaglie del potere assoluto e dall'arbitrio dello Stato. Eppure, senza il coraggio, la limpidezza e la semplicità dei ragionamenti esposti dalla Corte di Strasburgo oggi il "cadavere civile" di Contrada giacerebbe sotto i colpi di una “giurisprudenza” nazionale contorta, arzigogolata, bizantina, affidata ad incomprensibili sottigliezze e ricostruzioni, la cui unica funzione è sembrata sempre più spesso essere quella di tutelare la “ragion di Stato" nelle sue più svariate e storicamente discutibili articolazioni (quella della lotta alla mafia non ne è che una fra le tante), invece che quella di tutelare le libertà fondamentali del cittadino.

 

La questione, infatti, non consiste più nella ricostruzione di ciò che Contrada avrebbe fatto, ma nella rappresentazione del trattamento che ha ricevuto dallo Stato e dall’apparato giudiziario in particolare.

 

Quella di Contrada tuttavia non è che una delle tante vicissitudini che dovrebbero mettere in imbarazzo, in profondo disagio, tutto l’ordine della magistratura, dai giudici monocratici agli Ermellini della Corte di Cassazione sino ai Giudici Costituzionali.
Si devono ringraziare le contaminazioni provenienti dalla cultura giuridica europea, infatti, se oggi anche in Italia, ad esempio, il cittadino espropriato dei suoi beni dalla pubblica amministrazione ha diritto di vedersi indennizzato l’intero valore venale dell’immobile, a differenza di quanto hanno ritenuto per decenni i giudici nazionali (Cassazione compresa).

 

E’ grazie alla Corte di Strasburgo se i detenuti che vivono in meno di tre metri quadrati all’interno degli istituti penitenziari hanno diritto oggi di chiedere una migliore sistemazione ed il risarcimento del danno per violazione del divieto di tortura, poiché fosse stato per i giudici italiani avrebbero potuto marcire anche dentro le celle medioevali.

 

E’ ancora grazie alla Corte europea se è stato affermato con continuità il principio di irretroattività della legge penale e delle sanzioni connesse, perché fosse stato per la cultura giurisprudenziale italiana avremmo continuato a distinguere fra sanzioni penali in senso vero e proprio, da un lato, e conseguenze non sanzionatorie del reato, dall’altro, con buona pace della cosiddetta frode delle etichette.

 

E sono stati persino capaci di affermare, i giudici nazionali (anche in Cassazione), che da un'assoluzione ottenuta perché il fatto non costituisce reato possa comunque discendere il sequestro e la confisca di un immobile realizzato sulla base di un titolo edilizio rilasciato al privato dal Comune competente, mentre la Corte Europea ha sanzionato questo guazzabuglio incomprensibile di trappole frapposte ad ogni piè sospinto riaffermando l’elementare principio giuridico del legittimo affidamento (caso Punta Perotti di Bari).

 

Persino il diritto alla ragionevole durata del processo è divenuto per la cultura giurisprudenziale italiana un’acquisizione imposta dall’esterno perché, diversamente, allo Stato i tribunali italiani avrebbero riconosciuto la facoltà di tenere sotto scacco (senza indennizzo) un cittadino in un giudizio civile per tutta la durata della sua vita.

 

L’elenco degli esempi poco edificanti per la nostra “giurisprudenza” potrebbe essere molto più lungo di quello sin qui rappresentato e lo stupore potrebbe accrescersi nel confrontare questo atteggiamento con il tradizionale orientamento “progressista” dei tribunali italiani in materia di tutela dei diritti sociali (nel campo del diritto del lavoro, per dirne una) o di effettività del principio di eguaglianza sostanziale. Registreremmo semplicemente una gravissima distorsione culturale ed una lettura ideologicamente orientata della nostra Costituzione a discapito delle libertà fondamentali dei cittadini.
Fermiamoci qui, per carità di Patria.