Mademoiselle

La recensione del film di Park Chan-wook, con Kim Min-hee, Kim Tae-ri, Ha Jung-woo, Moon So-ri

Mariarosa Mancuso

Cercatelo. Insistete, sono soltanto dodici le copie distribuite nei cinema italiani. Vale la pena, film così non invecchiano (era stato presentato e molto ben accolto a Cannes 2016). Esce dai magazzini – un momento prima che buttassero via la chiave, questa è la sensazione – perché il regista coreano Park Chan-wook ha vinto lo scorso maggio la Palma d’oro con “Parasite” (meritatissima, speriamo che il film esca presto in sala, è una sublime storia di servi e di padroni con svolte da social-horror). Anche nel 2018 aveva vinto sulla Croisette un film orientale, “Un affare di famiglia” del giapponese Hirokazu Kore’eda, il regista che pochi giorni fa ha aperto la Mostra di Venezia con il suo film francese, “La vérité”: Catherine Deneuve (perfida) e Juliette Binoche in un ruolo meno donante (eppure era stata lei a trascinare il regista in trasferta sulla Senna). Il suo crossover culturale Park Chan-wook lo aveva già fatto, ricavandone un film più compatto e gustoso, appunto “Mademoiselle”. All’origine, una storia della romanziera britannica Sarah Waters, specializzata in romanzi vittoriani scritti oggi. E’ un filone abbastanza frequentato, a partire da “Il petalo cremisi e il bianco” di Michael Faber. In giro, tra i bordelli e nei bassifondi, durante la regina Vittoria che non nominava neanche le gambe del tavolo, prosperavano serial killer, prostituzione, droghe. Questo film trasporta il romanzo “Ladra” (Ponte alle Grazie) nella Corea degli anni Trenta, sotto il dominio giapponese. La versione originale sfruttava le due lingue, il doppiaggio pialla le differenze ma restano abbastanza motivi di interesse. A cominciare dalla bellezza delle due attrici, Kim Min-hee e Kim Tae-ri (nomi che non ricorderete mai, se non siete specialisti di cinema coreano). Una è un’ereditiera, l’altra arriva come dama di compagnia nella magnifica villa “glocal”, per metà orientaleggiante, per metà sembra uscita da un romanzo gotico. La trama è complicata, richiede attenzione (come i romanzi vittoriani, più che da Dickens, Sarah Waters ha imparato la lezione da Wilkie Collins). Le immagini sono una festa per gli occhi, dopo quest’estate magra se ne sentiva il bisogno.

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