Vedere o non vedere The happy prince?

La recensione del film di Rupert Everett, con Rupert Everett, Emily Watson, Colin Firth, Edwin Thomas, Colin Morgan

Mariarosa Mancuso

Per Rupert Everett, il ruolo inseguito da una vita. Al cinema, dove si è fatto almeno in tre: attore, sceneggiatore, regista (possiamo aggiungere produttore, per via dell’ostinazione). A teatro aveva già recitato in “The Judas Kiss” di David Hare: gli anni miserabili di Oscar Wilde, dopo l’arresto, il processo, i due anni ai lavori forzati. Il padre del suo amante Bosie gli aveva scritto un bigliettino chiamandolo “sodomita”. Siccome era ignorante, oltre che marchese di Queensberry, scrisse “posing as a somdomite”. Invece di farsi una risata, spinto dal capriccioso Bosie che voleva riavere l’onore perduto, lo sciagurato denunciò il marchese, ignorando che l’omosessualità era illegale. Molti anni dopo, il matematico Alan Turing ragionò con la stessa leggerezza: denunciò un furto in casa – era un suo ex amante a cui aveva dato le chiavi – e finì condannato, prima di suicidarsi con la mela avvelenata al cianuro (era appassionatissimo della Biancaneve disneyana). Scarcerato, Oscar Wilde se ne va in Francia, senza un soldo, a vivere in un tugurio dall’orrenda tappezzeria (“uno di noi due è di troppo”, pare abbia detto in punto di morte, qui invece chiede ancora champagne). Nei bassifondi parigini si aggira Rupert Everett calato totalmente nel ruolo, purtroppo il trucco da vecchio fa a botte con i ritocchini malfatti. Il titolo viene dalla favola “Il principe felice”, raccontata da Oscar Wilde prima ai figli (la moglie Constance soffre, ma non c’è nulla da ricucire) e poi a due piccoli fiammiferai parigini. La statua in oro e pietre preziose del Principe chiacchiera con la rondine rimasta indietro, le sue compagne sono già volate al caldo. Si fa spogliare dai rubini, ordinando alla rondine di portarli a chi ne ha più bisogno. “Non c’è mistero più grande della sofferenza” – questa la morale della favola, parola di principe e di Oscar Wilde, convinto che ognuno uccidesse le cose che ama. Anche la vanità però non scherza, qui la vediamo all’opera in tutto il suo splendore. Al cafè chantant e in una Napoli da cartolina, dove donne gelose e baffute irrompono nell’ammucchiata cercando le femmine, ma di femmine neanche l’ombra.

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