FACCE DISPARI

Ambrogio Sparagna: “‘Tu scendi dalle stelle' è un canto di resistenza”

Francesco Palmieri

L'etnomusicologo spiega perché il canto di natale rappresenta un'identità della quale non ci dobbiamo vergognare: "Sono uno che s’oppone alla dimenticanza"

Se uno ci ripensa, può tornare a stupirsi che il più famoso canto natalizio italiano, “Tu scendi dalle stelle”, sia stato opera di un teologo e dottore della Chiesa, e che dopo oltre duecentosettant’anni parole e note di questa “canzoncina a Gesù Bambino” firmata da sant’Alfonso Maria de’ Liguori filtrino ancora tra i clamori del presente.

Ambrogio Sparagna, musicista e etnomusicologo, è da mezzo secolo divulgatore infaticabile dei canti popolari tradizionali, indagati con lo spirito del ricercatore e l’animo del “resistente”. Resiste a chi vorrebbe espungere dai testi, in nome della “inclusività”, Gesù dalla sua stessa nascita; resiste alle maestre che a ogni Natale vorrebbero liofilizzare la Natività confondendo credo confessionale e tradizione, religione e religiosità, nell’idea che il rispetto per gli altri preveda la mortificazione delle proprie radici.

 

“Tu scendi dalle stelle” come atto di resistenza?

Come antidoto alla banalità della musica plasticata commerciale, come testimonianza di una fonosfera riferita a suoni e storie che rappresentano una identità di cui non ci dobbiamo vergognare. Ho eseguito i nostri canti natalizi davanti a bambini cinesi, africani e indiani e nessuno di loro ha mai provato disagio, come solo un malinteso senso di tolleranza religiosa può supporre. Nel caso di “Tu scendi dalle stelle” credo che poche melodie siano comparabili a questa pastorale: bastano le note iniziali della ciaramella per accendere emozione. Quando i canti religiosi s’innestano sulla tradizione popolare finiscono per appartenere più alla mente di tutti che a quella del suo autore. L’Italia di sant’Alfonso, ma ancora quella di pochi decenni fa, faceva i conti con un diffusissimo analfabetismo e lui capì che un messaggio importante per arrivare a chiunque abbisognava della trasmissione orale.

 

Se il pubblico apprezza ancora vuol dire che la tradizione è più forte delle mode culturali?

È un riconoscimento a chi si oppone all’annichilimento del passato. Come ogni anno, il 5 e 6 gennaio tornerò a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, con il concerto “La Chiarastella” assieme all’Orchestra Popolare Italiana, per una carrellata che prende avvio dal “Cantico delle Creature” di san Francesco. L’idea mi nacque quando constatai che molti Comuni invece di promuovere rassegne della nostra tradizione organizzavano festival di canti gospel. Mi parve una follia. Siamo arrivati alla diciannovesima edizione di “La Chiarastella” e durante gli anni abbiamo accolto ospiti greci, siriani, persiani, africani promuovendo il dialogo tra le culture, e abbiamo recuperato strumenti che vantano una storia antichissima ma rischiavano l’estinzione.

 

Perché scelse l’organetto?

Fu destino. Un pastore a cui mio padre aveva affittato le pecore, per estinguere un debito, gli regalò quel vecchio strumento. Me lo misi a tracolla e capii subito come funzionava. Era il 1976 e salvo pochissimi anziani nessuno lo suonava più. In breve, ancora da studente di etnomusicologia, mi ritrovai con tantissimi allievi. Oggi si vendono più di diecimila organetti all’anno e li suonano centinaia di ragazzi, dalla Calabria al Piemonte. È accaduto anche per la zampogna: quando la recuperammo, cinquant’anni fa, ci prendevano per matti. Adesso, grazie anche al nostro lavoro, ci sono più zampognari di allora, magari diplomati in strumenti classici che arrotondano i guadagni. Molti ignorano che gli zampognari nel periodo natalizio non erano semplici musici ambulanti, ma si sentivano cerimonieri della tradizione religiosa. Nessuno di loro, per esempio, avrebbe alzato il gomito durante una novena.

 

Cosa è cambiato rispetto a quando gli etnomusicologi battevano le campagne con il registratore?

Non c’è più la stessa tensione etica. Nel non lasciar morire la tradizione vedevamo un modo per migliorare il mondo e ci piaceva vivere l’esperienza tra la gente piuttosto che negli archivi. Era la magia pionieristica che provavo alle prime edizioni della “Notte della taranta”, quando i suonatori di tamburello si contavano sulle dita. Ora quella sacralità si è un po’ persa perché ci sono moltissimi gruppi di musica popolare salentina, ma va bene così. Che quegli strumenti siano tornati in uso.

 

Cosa ha attinto da collaborazioni con artisti come De Gregori e Giovanni Lindo Ferretti?

Sono stati compagni di strada con cui ho potuto condividere storie e mondi dell’Italia popolare nell’incontro con la canzone d’autore, non dettato da progetti delle case discografiche ma dalla curiosità, dalla voglia di sperimentare relazioni e sintonie artistiche.

 

Quanto ha influito sul suo percorso la nascita a Formia, in una terra che fu teatro di ribelli, ferocie giacobine, piemontesi e brigantesche, dell’assedio di Gaeta, della Linea Gustav…

Tutto si riassume in “Diavoli e acquasanta”, lo spettacolo che ho appena rappresentato a Itri con Davide Rondoni. Nella memoria popolare c’è il ricordo di Fra Diavolo come dei santi che passarono di qui, da Filippo Neri a Paolo della Croce, lasciando anche loro un segno indelebile. Un crocevia di bene e male, dove la gente semplice si è riconosciuta sempre più nelle persone che nelle istituzioni.

 

In quel passato lei chi sarebbe stato?

Un suddito borbonico di inclinazione carbonara, vagheggiando idee che già nel Settecento Antonio Genovesi propugnava.

 

E adesso?

Sono uno che s’oppone alla dimenticanza. Mi sento figlio di quel regio decreto del 1928 che istituì la Discoteca di Stato per raccogliere e tramandare alle future generazioni le voci e il patrimonio sonoro italiano. È una legge che ho applicato da me per tutta la vita.

 

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