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il boato in cuffia significa che siamo affamati di realtà

Per romanticismo o genialità contabile, è tornato di moda l'album dal vivo

Stefano Pistolini

Tra vinili colorati, edizioni deluxe e boati registrati a dovere, il disco live torna come oggetto di culto e macchina commerciale: non più prova di autenticità, ma souvenir emotivo di massa, antidoto all’isolamento e ultima frontiera di un’industria che monetizza la presenza mentre la musica, online, evapora

Una volta, ormai nella notte dei tempi, “Made in Japan” dei Deep Purple dava il brivido di essere proprio là, sotto il palco, un’esperienza rara, in certi casi quasi un’utopia. Erano i tempi in cui il doppio vinile dal vivo certificava che quella certa band sapeva suonare senza trucchi da studio, e poi contribuiva anche a pagare la villa in campagna del batterista. Poi, per anni, il disco live è stato la Cenerentola del mercato: un riempitivo contrattuale, un succedaneo del “best of” per tappare i buchi tra faticati album di inediti, un prodotto per collezionisti ossessivi.

Adesso invece le presse hanno ripreso a stampare vinili colorati. Anche l’industria italiana, in un guizzo di genialità contabile venata di romanticismo, sta riscoprendo il documento-limite della discografia: l’album dal vivo. E’ tornato di moda, come souvenir di lusso, atto di consumo. Da Cesare Cremonini a Vasco Rossi, passando per Lucio Corsi, tanti artisti manifestano l’impellente bisogno di storicizzare quello che migliaia di persone hanno sentito (e filmato con lo smartphone) appena qualche mese addietro. Ma perché?

Partiamo dalla considerazione che è sempre una questione di soldi, anche se ci si occupa di canzonieri rispettabilissimi. Nello streaming liquido del presente una canzone dura quanto una storia di Instagram e vale quanto un caffè alle macchinette: ergo, i concerti sono l’ultimo baluardo finanziario della musica leggera, manifestazione di appartenenza. karaoke di massa della tribù che canta in coro. Ma lì ancora girano i soldi, anche se non è sempre vero. Dunque l’album dal vivo, oggi, è la sublimazione del merchandising. Prima che un documento storico, è una memoria emotiva e un totem da vendere su Amazon magari in edizione “deluxe limitata”. Somiglia a una t-shirt che suona. Costa pochissimo produrlo (la band è già pagata, i pezzi sono i soliti, basta registrarli con particolare cura), e si vende a prezzo pieno agli irriducibili che lo fanno proprio come prova tangibile della loro fedeltà. SI iscrive all’ottimizzazione industriale perfetta: si vende il maiale, e poi si vendono anche le setole.

Vasco (“Vasco Live 2025-The Essentials”). Lui non pubblica dischi live: ma messe cantate, riproducibili all’infinito. Il suo disco dal vivo (in generale e in questo caso particolare) è di una ridondanza necessaria, peraltro utile a ribadire che lui può riempire San Siro anche stando zitto. Questo album è una rassicurazione sociale: il mondo cambia, i governi cadono, ma il “Blasco” resta stabile a garantire che “C’è chi dice no” a tre generazioni. E’ la suprema comfort zone del rock italiano.

Cesare Cremonini: Qui siamo nel campo della definitiva consacrazione. Cesare sa che per sedere al tavolo dei giganti non basta scrivere belle canzoni pop, ma bisogna anche tenere il palco come uno showman purosangue, dimostrarsi un Freddie Mercury della via Emilia. Questo live (“Cremonini Live25”) è un manifesto di potenza, uno strabordante nuovo standard per la produzione nazionale, è un’operazione di posizionamento muscolare basata su un eccellente repertorio, una performance di vertice, un indomabile narcisismo.

Lucio Corsi (“La Chitarra nella Roccia”, perché Lucio si sente un po’ come l’indimenticato Artù “Semola” e che sarà anche un film-concerto diretto da Tommaso Ottomano, l’onnipresente spalla di Lucio) è il caso a parte, imprevedibile. Il suo live, registrato dentro l’Abbazia di San Galgano nel Senese, ha un formato più intimo, meno infettato dalla sindrome di Taylor Swift, Non è soltanto autocelebrazione ma anche tentativo di catturare la magia effimera del suo teatro-canzone che dal vivo prende veramente vigore, sia pure con quella confezione glam di provincia, che ci fa sempre pensare che gli Spiders From Mars non sono passati invano. Lucio fa un bel disco dal vivo perché la sua musica è performativa. Il fruscio del suo costume di scena e l’applauso della platea vestono le sue canzoni, contribuendo con una calorosa overdose di vitamine.

In sostanza sono tre buoni dischi, magari più da regalare che da comprare. Fa piacere riceverli, comprarli è un atto di fede. E c’è un altro aspetto da sottolineare, in attesa di verificare quali saranno gli esiti commerciali di queste operazioni: il ritorno del disco live è comunque una celebrazione collettiva della fine dell’isolamento. Il boato del pubblico ascoltato in cuffia non è solo un rumore di fondo, ma anche un suono rassicurante. Significa che ancora si può fare. E che siamo affamati di “realtà” mentre l’Intelligenza artificiale si affanna a produrre musica assecondando i nostri desideri: il disco dal vivo è tutto umano, fatto in presenza e quei “Ciao Milano!” valgono una discreta fetta del prezzo d’acquisto. Anche se poi è da ingenui credere che il live album che stiamo ascoltando riproduca esattamente ciò che è successo quella sera in quello stadio. La post produzione sta lì apposta a fungere da chirurgia estetica musicale. Il concerto viene registrato su cento tracce separate, poi si va in studio e si sistema tutto, si rifà, si migliora, si corregge. Oggi è tempo di perfezione simulata e ascoltare i vecchi album dal vivo pieni di confortanti passaggi che traballano scalda il cuore. A me, per esempio, ancora pare irresistibile il live dei Grand Funk Railroad, con quei pezzi da dieci minuti e i lancinanti assoli che non finiscono mai. Compreso quello – famigerato – di batteria.

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