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Voce dal Texas. Per Micah P. Hinson le storie contano ancora

Vittorio Bongiorno

Il cantautore statunitense si è lasciato alle spalle tenebre e perdizione e ora suona con gioia. Chiacchiere sul nuovo disco, l’infanzia e Gesù

C’è un cowboy texano che si aggira con una chitarra per il centro di Brescia fumando sigarette, col bocchino sotto un cappello di paglia a falde larghe. Ha i lobi bucati delle orecchie da cui pendono un grosso aculeo animale da uno e un orecchino d’oro a zampa di gallina dall’altro. Tra il fascino rinascimentale di piazza della Loggia e i portici di piazza del Mercato il cantautore Micah P. Hinson, mezzo viso pallido e mezzo pellerossa, dopo aver vagato insofferente tra il sud degli Stati Uniti e l’Europa, sembra aver trovato una seconda casa in Italia. Ha appena terminato una lunga giornata di prove in una ex fabbrica tessile riadattata a studio di incisione, e gironzola in centro con aria svagata con Alessandro “Asso” Stefana, chitarrista e produttore del suo nuovo disco “The Tomorrow Man” (Ponderosa Music Records, uscito a fine ottobre), che da qualche anno è diventato la sua ombra musicale. Esattamente al contrario di molti musicisti nostrani che attraversano l’oceano in cerca del sogno americano, questo allampanato menestrello dalla voce baritonale e dal collo tatuato con figure rupestri dei suoi avi quel sogno l’ha fatto a pezzi più volte lungo una via crucis di fede, rifiuto e allontanamento dalla famiglia, droga, vita di strada, quattro figli, un divorzio e un secondo matrimonio. Ora è a Brescia a testare le canzoni del tour europeo che nelle scorse settimane l’ha portato anche in Italia.

Nel 2019 era stato Vinicio Capossela ad aver fatto scoccare la scintilla tra i due musicisti col cappello, invitando l’americano a esibirsi allo Sponz Fest che dirige a Calitri, provincia di Avellino: in quei cinque giorni di musica e amicizia erano nate le canzoni del penultimo disco di Hinson “I Lie to You” (2022), prodotto e suonato da Stefana, che pure di Vinicio è lo storico braccio destro e chitarrista. Dopo anni di trasformazioni interiori e un grave incidente d’auto in Spagna nel 2011, per cui ha rischiato l’uso delle braccia, oggi Hinson sembra essersi lasciato alle spalle il folk rock tragico del passato per un nuovo progetto musicale dove la sua voce da crooner irregolare risuona luminosa al centro della narrazione. E dove le canzoni sono nude e vere

                           

Nato a Memphis, Tennessee nel 1981 e cresciuto ad Abilene, Texas, il musicista è discendente dalla tribù dei Chickasaw, una delle cosiddette cinque tribù civilizzate che all’inizio dell’800 vennero costrette a migrare lungo il “Sentiero delle lacrime” nel futuro Oklahoma. Passando con lui qualche ora a discutere delle nuove canzoni si percepisce chiaramente il peso di un’eredità fatta di sofferenza, dolore e redenzione che lui però porta addosso con disinvoltura, e che non gli impedisce di guardare avanti con gli occhi di chi non dimentica.

“Svegliati, dormiglione, è mattina presto e tutte le nostre vite sono nuove. Su con la vita, dormiglione. E’ ancora mattina e anch’io sono deluso da Gesù. Non c’è bisogno di essere così tristi. Non c’è bisogno di essere così arrabbiati”, canta nella ballata “Oh, Sleepyhead” in apertura del disco con un armonioso arrangiamento di archi che accompagnano il suo canto con una gioia mai sentita nella sua musica del passato, fatta di tenebre e perdizione. E la canzone dedicata ai dormiglioni spirituali è un inizio gioioso che promette solo cose buone.

“Queste nuove canzoni parlano più o meno della stessa roba di sempre, credo. Di relazioni, di cazzi e mazzi. Ma con uno sguardo diverso, capisci?”, racconta il musicista al Foglio nel dehor di un bar del centro mentre rolla la prima di cento sigarette, “per me adesso è tutto molto meno romantico. Non è facile da spiegare, davvero. E’ complicato… Ma sì, alla fine le canzoni parlano di relazioni, di come ci si relaziona, suppongo”. Infila la sigaretta nel consueto bocchino che è ritratto in tante fotografie, fa una lunga tirata, ci pensa un po’, riprende a parlare cauto e misurato: “Quando ho iniziato a scrivere questo disco, o quello che poi è diventato questo disco, vivevo ancora con i miei figli, in Texas. Ero ancora sposato. Ma… cazzo, era tutto già complicato allora”.

Conoscendo la sua biografia da artista maledetto si è sempre un po’ in imbarazzo a fargli domande personali, lui però affronta ciò che è stato senza peli sulla lingua e con un certo sarcasmo, con quella faccia da predicatore stanco che ha visto l’inferno e ci ha trovato un bar aperto fino a tardi dove bere l’ultimo bicchiere. “Nella mia carriera la gente ha sempre dato molta importanza alle storie. E’ così che è iniziato tutto. Prima una canzone, poi la storia dietro. E capisco che le storie contano. Per la prima volta in vita mia ora mi sento davvero sicuro di quello che dico. Ed è una differenza enorme rispetto ai dischi precedenti. Quando la gente mi chiedeva di cosa parlassero le vecchie canzoni non sapevo che rispondere. Erano solo parole messe bene sopra degli accordi carini, e quello era il pezzo. Ma con questo album è diverso”.

 

Conoscendo la sua biografia da artista maledetto si è sempre un po’ in imbarazzo a fargli domande personali, lui però affronta ciò che è stato senza peli sulla lingua e con un certo sarcasmo, con quella faccia da predicatore stanco che ha visto l’inferno e ci ha trovato un bar aperto fino a tardi dove bere l’ultimo bicchiere

                                 

“Un giorno avrò la mia vendetta, aspetta e vedrai. Un giorno non la conoscevo, poi un giorno potevo chiamarla amica, poi un giorno volevo solo che morisse”, canta nella murder ballad “One Day I Will Get My Revenge”, una canzone di tradimento e vendetta che è sorretta solo da qualche nota di pianoforte, percussioni e dalla bella sezione d’archi dell’Orchestra Filarmonica di Benevento diretta da Raffaele Tiseo, “Allora capirà, proprio come io capisco adesso: nessun amore può essere sprecato, se posso bruciare tutto. E io aspetto”. La languida ballata fa da perfetta colonna sonora a “The Lowdown”, la nuova pluripremiata serie ideata da Sterlin Harjo, un altro giovane e talentuoso scrittore e regista di origine Seminole: ambientata a Tulsa, Oklahoma, ha come protagonista l’attore Ethan Hawke nei panni di uno sgangherato scrittore e improvvisato investigatore che rischia la vita per salvare la comunità dei nativi.

A sentir elencare il catalogo delle stravaganze dell’infanzia di Hinson in Texas, tra la chiesa fondamentalista di Church of Christ, la scoperta dell’LSD e un po’ di galera, sembra di avere accanto un personaggio dei romanzi di Jim Thompson, il grande scrittore americano che ha raccontato meglio di chiunque altro la catastrofe di chi non ha niente da perdere e nemmeno da vincere, perdente che però non si abbatte mai.

“Una volta pensavo che la sofferenza fosse la chiave di tutto. Che per scrivere bene dovevi distruggerti. Ma col tempo ho capito che puoi scrivere anche dalla calma. Dal silenzio”, racconta lui a proposito dell’ispirazione nella scrittura, “adesso scrivo anche quando sto bene, e questo è nuovo per me. Come se finalmente potessi scrivere non solo per sopravvivere, ma per vivere”. E’ una frase bellissima, segno di una ritrovata pace spirituale. Asso, che ci ascolta chiacchierare, annuisce, Micah armeggia nuovamente con tabacco e cartine: “Ci ho messo vent’anni per arrivarci”. Gli chiedo della sua adolescenza in Texas, di quando ha percepito la folgorazione dalla musica e lui ci pensa un po’, come a dover ripescare un ricordo lontano: “Da bambino avevo una piccola tastiera Casio che insegnava le canzoni Disney con i tasti che si accendevano sulle lucine per farti capire dove mettere le dita. Mi ricordo me stesso, minuscolo, seduto nel vialetto di casa in Texas, a cercare di imparare quelle cazzo di canzoncine. Ma già allora sentivo che la musica era potente. Mi muoveva qualcosa dentro e io volevo imparare a muovere le persone nello stesso modo”.

 

“Una volta pensavo che la sofferenza fosse la chiave di tutto. Che per scrivere bene dovevi distruggerti. Ma col tempo ho capito che puoi scrivere anche dalla calma. Dal silenzio”, racconta lui a proposito dell’ispirazione nella scrittura

                               

Forse è quello che lui cerca di fare ancora oggi, come ogni cantastorie che si rispetti deve fare quotidianamente: emozionare la gente. Sembra d’accordo: “E’ quello che fa la musica folk, no? Prende qualcosa che esiste già, lo rielabora un po’ e lo ridà al mondo nella propria maniera”. Aveva spento la sigaretta staccandola con un gesto antico dal bocchino ma ne prepara subito un’altra. Ordiniamo due caffè mentre lui dà fuoco al mozzicone e riprende a raccontare: “Tutto è cominciato con mio padre, insegnante all’Abilene Christian University, e John Denver. Era praticamente l’unica cosa che ascoltavamo. Molti miei coetanei erano in fissa con Leonard Cohen o Bob Dylan… io invece solo John Denver e Gesù Cristo. Le mie radici Chickasaw le ho scoperte più avanti. Quando ero bambino c’erano solo John Denver per la musica e Gesù Cristo per tutto il resto della mia cazzo di vita quotidiana”. Ed è così che, inaspettatamente, invece che di rock finiamo a parlare del fascino della figura di Cristo e del potere della religione. Hinson si illumina come a voler raccontare un segreto: “L’ultima volta che sono stato in Vaticano mi guardavo intorno e pensavo ‘cazzo, è tutto così bello’, ma poi ti rendi conto che è stato costruito sulle spalle dell’imperialismo, della schiavitù, dello sfruttamento. E magari Gesù non aveva idea che sarebbe diventato tutto questo. Perché Gesù, quello del Vangelo, era un hippy libero, un comunista ante litteram. Oggi lo odierebbero. Non sopporterebbero nemmeno la metà di quello che diceva”. Lo riporto a parlare dei suoi giorni inquieti e ha subito la risposta pronta, manco fosse la quarta di copertina di un romanzo pulp: “Sai, nascendo in Tennessee e crescendo in Texas non avevo molte alternative: o diventavo un pezzo di merda o diventavo un cantautore”.

Pochi giorni prima dell’esplosione della pandemia, e dopo il doloroso divorzio dalla madre dei suoi quattro figli, Hinson vola in Colombia dalla donna che sarebbe poi diventata la nuova moglie. Atterra a Bogotà e il governo chiude tutto, ma per fortuna ha con sé una chitarra, un cappello e un nuovo amore. Tutto ciò che serve per iniziare una nuova vita: “In mezzo a tutto questo casino sono riuscito a trovarla, lei è colombiana e quello era l’unico paese che non aveva ancora chiuso le frontiere. Ero gasato. Appena sono atterrato hanno chiuso tutto, ma per fortuna ero già lì e ho cominciato a registrare i primi demo che poi ho mandato ad Asso. Prima ero solo un cantautore in Nord Texas, con figli, solita routine, poi bam, pandemia, tutto cambia. La mia famiglia, o almeno l’idea che avevo di famiglia, stava sparendo. E io ho iniziato un nuovo viaggio”.

“Muri, possiamo lasciarli abbattuti, perché diventeranno dimora di cose che non potremo mai possedere. Ti ho vista. Stavi arrivando. Quanto poco sapevamo allora. Tu mi vedi. Stavo correndo. Quanto poco capivamo allora”, canta Micah nella languida “Walls”, e viene da pensare che sentendolo così sicuro di sé il peggio sia davvero passato. Pochi accordi di pianoforte, una batteria che punteggia la sua voce, gli archi che donano alla ballata un senso di speranza. Ripete che ha cercato queste canzoni per tutta la vita e sembra proprio intenzionato a vivere questo momento come un sopravvissuto che scrive come parla: senza freni, con una grazia brutale. Gli chiedo se, dopo tutti questi anni in Europa, tra la Spagna e l’Italia, si senta più a casa qui o nella sua terra piena di conflitti, e lui sospira greve: “Bella domanda. Non lo so. Forse da nessuna parte. Quando torno in Texas, non mi sento più texano. Quando sono qui, non mi sento europeo. E’ come se fossi sempre ‘in mezzo’. Un tipo senza un posto fisso nel mondo”.

Dopo questo uragano di parole gli chiedo se ha voglia di farmi sentire un brano suonato con la chitarra acustica e così veniamo accolti alla Riserva del Grande, un bel locale ancora chiuso al pubblico, per avere un po’ di silenzio intorno. Hinson e Asso si siedono al bancone e imbracciano due vecchie chitarre scrostate. Un grande sole è disegnato sul muro alle loro spalle mentre intonano “Think of Me”, quella che forse è la più bella canzone di “The Tomorrow Man”.

“Pensami ancora una notte. Stringimi come se non volessi lasciarmi andare via. Sognami ancora una volta. Ignaro di come mi hai fatto soffrire. Un amore come questo mi ha perseguitato”, canta Micah con voce rotta mentre Asso accompagna il suo arpeggio con dei ricami gentili. “La mia codardia mi ha inghiottito. Stringimi forte solo per un’altra notte, il vento porterà la pioggia che mi segue. Augurami le parole che non riesco a trovare, sono paralizzato dal mondo che mi lascia essere quello che sono”, finisce di cantare lui con voce roca e scorticata. Dentro quella canzone c’è tutto: ferite, cadute, stanchezza e la pace che arriva solo dopo che hai smesso di cercarla.

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