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Muti ex cathedra. Lezioni su Mozart e sulla ricerca della perfezione

Stefano Picciano

“Non suonate le note, siate musicisti”, dice ai suoi ragazzi l'erede della grande tradizione italiana: “Ci vuole una vita intera per comprendere un’opera come questa in tutti i suoi dettagli”. Emerge in tal modo come l’osservazione di una partitura sia l’abbrivio di un percorso verso una bellezza che rimane sempre un poco più in là

L’inconfondibile suono che sorge dall’orchestra nell’accordare gli strumenti già riempie la sala, i cantanti si dispongono al posto loro assegnato, gli allievi si accingono ad alternarsi sul podio. Sul palco, una sedia con davanti un grande leggio: da lì Riccardo Muti condurrà questa nuova edizione della “Italian Opera Academy”, l’annuale evento che ha ideato – come ha detto lui stesso – per “consegnare ai giovani un passato che non si trova sui libri”. Il maestro si presenta sulla scena con l’entusiasmo che ormai conosciamo come suo tratto distintivo e dà inizio a lezioni che presto si svelano come momenti di condivisione e riflessione, occasioni colme di aneddoti, scoperte, insegnamenti che lui, erede della grande tradizione italiana, rivolge agli allievi ma anche al pubblico che siede in platea. E’ la Fondazione Prada a fare gli onori di casa, nella sede milanese che per l’occasione ha allestito i suoi spazi dando all’ambiente eleganti sembianze teatrali. Il programma prevede alcune giornate di lezioni aperte al pubblico e la rappresentazione finale dell’opera su cui il lavoro è incentrato, quest’anno scelta tra i vertici assoluti del teatro musicale: Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart.

 

“Insieme a Verdi – sostiene Muti – è senza dubbio Mozart l’autore a cui ho dedicato la maggior parte del mio studio e della mia ricerca interpretativa. Entrare in contatto con la sua arte, per un interprete, è un’esperienza sconvolgente. Perché Mozart mette in musica l’uomo, così com’è”. L’espressione stessa dell’essere umano pare essere infatti il contenuto di queste lezioni: l’insegnamento di Muti si attua soprattutto in una costante tensione verso l’espressività (“Dobbiamo essere estremamente espressivi anche nel pianissimo”), nella cura dell’articolazione, nella ricerca della chiarezza. Ogni frase viene indagata, esplorata nei particolari e ogni scelta interpretativa viene motivata alla luce dei significati del testo: “Nel teatro di Mozart – ricorda – c’è una connessione strettissima tra ogni dettaglio della musica e il testo”. La questione, anzi, è proprio accorgersi che la genialità del compositore si cela in particolari che a uno sguardo più superficiale sfuggirebbero: un repentino accordo minore quando si nomina la notte, una cadenza d’inganno a favorire un sentore d’incertezza, un ribattuto che pare alludere a una risata beffarda, l’orchestra che evoca i sospiri subito prima che il testo li nomini, una scala ascendente volta a produrre l’effetto di un progressivo senso d’inquietudine: “In questi particolari – conclude Muti – scopriamo la grandezza di Mozart”. La partitura è analizzata come un susseguirsi di istanti che, ora colti nella loro densità, svelano una bellezza altrimenti perduta: il maestro conduce l’orchestra in un instancabile labor limae nel quale lui stesso appare, più che possessore di una verità, ricercatore di un orizzonte interpretativo mai pienamente raggiunto: “Ci vuole una vita intera – dice – per comprendere un’opera come questa in tutti i suoi dettagli”.

 

 

Emerge in tal modo come l’osservazione, la contemplazione, lo studio (cioè, etimologicamente, lo sguardo amoroso) di una partitura siano l’abbrivio di un percorso verso una bellezza che rimane sempre un poco più in là o, come lui stesso afferma, verso “la ricerca di una irraggiungibile perfezione”. Per questo è necessario innanzitutto un atteggiamento il più possibile libero da ogni precomprensione, da ogni illusione di conoscere già, come Muti spiega con parole accennate quasi di sfuggita: “Il bisogno non è innanzitutto quello di interpretare, ma quello di cogliere esattamente che cosa è scritto”. A più riprese sottolinea che non bisogna inventare nulla, accompagna gli allievi verso una meticolosa attenzione nei confronti del testo e ferma tutti quando l’orchestra esegue un crescendo che in partitura non è indicato: si tratta, come afferma lui stesso, di “mettersi al servizio del compositore, al servizio della bellezza, cercando di farla risplendere nella sua essenza più vera”. Ma unitamente a questa dedizione per così dire amorevole nei confronti dell’opera, nelle lezioni di Muti emerge anche la dimensione più misteriosa dell’interpretazione, quella che nasce dalla consapevolezza che “ciò che è scritto non è tutto” o che, come osservò Gustav Mahler, “nella partitura è scritto tutto tranne l’essenziale”. A un tratto si rivolge infatti con ironia ai giovani componenti dell’orchestra dicendo: “Ragazzi, non suonate le note… Siete musicisti: le note in quanto tali sono nulla, è l’espressività che non deve mancare”. E in un altro momento: “Mentre suonate le note, non pensate alle note: pensate al loro significato”. Proprio da questo spunto decido di partire, poche ore più tardi, cogliendo l’occasione di un dialogo con il maestro: che cosa intende dire? “La questione – risponde – è che la nota in sé è semplicemente un fenomeno acustico, ma dietro le note risiede una verità che nessuno può individuare completamente, un contenuto misterioso e ineffabile. La ricerca della qualità del suono, della sua profondità, la possibilità di trovare colori sempre diversi, il rispetto delle dinamiche, non sono altro che il tentativo di avvicinarsi a un significato mai interamente decifrabile. Mozart disse che tra una nota e l’altra c’è il mistero: per tutta la vita noi dobbiamo cercare di sondare questo mistero, pur sapendo benissimo che non si arriverà mai a coglierlo nella sua interezza perché è qualcosa di infinito”. 

 

Ciò che in queste lezioni emerge è il costante invito a un’attenta osservazione della partitura, dei suoi singoli suoni e anche delle pause (“La pausa – riflette il maestro ad un tratto – è una sorta di ponte di silenzio, ma questo silenzio è pieno di musica”) nel desiderio di un assoluto rispetto del testo: “Nell’opera italiana – mi confida in proposito – c’è stato il rischio che questo rispetto per l’opera venisse a mancare. Non si tratta di stabilire un’assoluta inflessibilità – le variazioni nella ripetizione o altre possibili varianti fanno parte della tradizione e delle consuetudini storiche del teatro d’opera – ma non si deve mai rinunciare a un atteggiamento di rigoroso rispetto per ciò che è stato scritto dall’autore”. Vi è anche, da parte di Muti, una sorta di continuo, sentito elogio della lingua italiana (“noi viviamo – ricorda citando Dante – nel bel paese là dove ‘l sì suona”) con l’invito a ricercare un suono legato che rispetti l’andamento della frase (“Nella partitura la musica è divisa in battute, ma il canto deve essere legato come se sul pentagramma non ci fossero battute”) e, soprattutto, a comprendere l’importanza di un trattamento espressivo della parola: “Articolare bene la parola vuol dire renderne vivo il senso – dice ai cantanti – per questo dovete essere espressivi fino all’ultima sillaba. Ancor prima di pensare al suono, bisogna cogliere l’essenza della parola”.

 

 

Quando corregge la pronuncia dei cantanti stranieri lo fa in modo implacabile ma con quell’ironia che guarda all’errore come occasione di una nuova scoperta: “L’articolazione della parola, il vocabolo enunciato nella sua intensità, nella sua corretta pronuncia, nella sua chiarezza – pensiamo a ciò che la nostra tradizione chiama recitar cantando – sono il veicolo dell’espressione. Chi ascolta deve avere la possibilità di cogliere chiaramente ogni singola parola dalla voce del cantante, senza bisogno di leggere il testo, in modo da potersi immergere naturalmente nel flusso musicale dell’opera”. L’esperienza, nel ripercorrere insieme questa partitura, è quella di una riscoperta di ciò che si conosce – o si crede di conoscere – già e dunque la sorpresa di un rinnovato stupore: per la grandezza di Mozart, per l’inesauribile polisemia della musica, per quella ineffabile capacità dell’arte di ritrarre le più profonde sembianze della natura umana. Muti stesso riferisce il suo pensiero in proposito: “Opere come queste sono indispensabili per l’uomo, perché i grandi compositori parlano di noi, dei nostri pregi e dei nostri difetti: ascoltando profondamente queste opere troviamo i fattori che caratterizzano l’essere umano e in tal senso questa musica ci offre un conforto: gli elementi fondamentali dell’essere umano vengono qui rappresentati a un livello universale”.

 

Nel dialogo con i suoi allievi mette ripetutamente in luce il rilievo di ogni singolo gesto che proviene dal podio, la costante responsabilità del direttore nell’ottenere dall’orchestra il suono adeguato (“Hai sentito? – dice ad un tratto a un allievo – Qui il suono è stato diverso perché il gesto era diverso”) e mostra il proposito di sfrondare la gestualità degli allievi da ciò che è in eccesso, procedendo quasi per sottrazione: “Se la gestualità è esagerata – mi dice dopo le lezioni – sposta l’attenzione del pubblico verso ciò che si vede allontanandola da ciò che si ascolta: per questo preferisco ridurre al minimo il gesto. Ma ciò si può fare solo se prima c’è stato un lavoro di concertazione capillare, così che il direttore, con pochi cenni, possa ricordare ai musicisti qualcosa su cui si è lavorato in precedenza. Il fatto che il termine ‘concertatore’ – un tempo affiancato a quello di direttore – sia oggi sparito dalle locandine dei teatri è eloquente: con quel termine si intendeva sottolineare, infatti, che il compito del direttore è portare al pubblico ciò che ha ‘concertato’ con l’orchestra in un precedente lavoro”.  Che ruolo riveste – gli chiedo – lo sguardo? “E’ fondamentale. Spesso, quando dirigo, mi muovo pochissimo, ma comunico con l’orchestra attraverso lo sguardo e altri segnali impercettibili al pubblico. In quei momenti, in realtà, è possibile che stia dirigendo più intensamente di come farei muovendo solo le braccia”. Durante le lezioni a cui abbiamo assistito si poteva constatare come ciascun allievo, alternandosi con gli altri sul podio, ottenesse dalla medesima orchestra sonorità assai differenti. Come possiamo spiegarlo? “Qui risiede – risponde Muti – l’aspetto più misterioso della direzione: l’orchestra, senza rendersene pienamente conto, risponde a impulsi quasi impercettibili che provengono da chi è sul podio: nel direttore c’è un atteggiamento – l’intensità dello sguardo, la convinzione rispetto a ciò che vuole trasmettere, il gesto più o meno secco, morbido, legato – un’energia, per così dire, spirituale che viene interamente recepita dall’orchestra e determina profonde differenze nel suono, nel colore, nelle dinamiche”.

 

 

E’ evidente, parlando con lui, quanto la direzione d’orchestra si fondi – oltre che sulla conoscenza tecnica e musicale – su una dimensione misteriosa, interiore, qualcosa che non si finisce mai di perfezionare. Glielo accenno, e il maestro subito rievoca un aneddoto significativo: “Un giorno mi trovai con Vittorio Gui nella sua residenza di Fiesole e lui – che aveva novant’anni – mi disse: ‘Muti, che peccato essere giunto alla fine della vita proprio ora che sto cominciando a capire che cosa significa dirigere un’orchestra’”. E’ dunque, quello del musicista, un lavoro che procede sempre per approssimazione? “E’ qualcosa di simile all’orizzonte”, dice. “Più ci solleviamo per coglierlo nella sua vastità, più l’orizzonte stesso si allarga e ci impedisce di vedere i suoi confini”. Il dialogo prosegue da più di mezz’ora, ma voglio porre a Muti un’ultima domanda: da secoli la Chiesa trova nella musica un ambito privilegiato per quella via pulchritudinis che essa indica all’uomo di ogni tempo. Quali sono i suoi sentimenti nel ricevere dalle mani di Leone XIV il Premio Ratzinger? “Sono grato al Papa, verso cui nutro molta stima”, risponde; poi lascia andare la memoria ad un affezionato ricordo: “L’amato Benedetto XVI ha creduto molto nella capacità della musica di innalzare gli animi verso la dimensione spirituale. Custodisco nella memoria la circostanza dell’ultimo concerto che ho eseguito in Vaticano per lui – pagine sacre di Vivaldi e Verdi con l’Orchestra e il Coro del Teatro dell’Opera di Roma – e ricordo che al termine il Papa, parlando a braccio, improvvisò una dissertazione musicologica su questi autori. In seguito, da Papa emerito, mi invitò in Vaticano. Ci intrattenemmo a lungo, in una stanza molto modesta, parlando in particolare di Mozart e ricordo con emozione il suo sguardo quando mi salutò per l’ultima volta: lui sapeva bene che nella musica si può trovare la verità dello spirito”.