Foto di Krano, dal suo profilo Facebook

"Le città di Pianura"

Perdersi nelle ballate di Krano, tra ritmi lenti e una lingua misteriosa

Stefano Pistolini

Per “Le città di Pianura” Marco Spigariol s’incarica di traslare in musica i desolati, quanto amati scenari stradali attorno al Piave, il sapore delle foschie e delle nebbie, quella rarefazione umida dell’aria, i vapori della laguna, gli stralunati mondi che si muovono al rallentatore nei bar

Adesso che “Le città di Pianura” è diventato il film-sorpresa di stagione, con la sua persuasiva vicenda dei due dropout alla deriva sulle strade della bassa trevigiana, magnificamente interpretati da Pierpaolo Capovilla (cantante del Teatro degli Orrori) e Sergio Romano, con la complicità di Andrea Pennacchi e Roberto Citran, rinverdendo le atmosfere di Carlo Mazzacurati e Vitaliano Trevisan e sospingendo movimenti alla Aki Kaurismäki, abbiamo finalmente l’occasione di parlare di Krano, nome d’arte di Marco Spigariol, veneto trapiantato a Torino, autore della colonna sonora del film, che gioca un ruolo indispensabile nella gestalt architettata dal giovane regista Francesco Sossai.

 

Per “Le città di Pianura”, grazie alla felicissima intuizione del filmmaker, Krano s’incarica di traslare in musica i desolati, quanto amati scenari stradali attorno al Piave, il sapore delle foschie e delle nebbie, quella rarefazione umida dell’aria, i vapori della laguna, gli stralunati mondi che si muovono al rallentatore nei bar ai margini delle provinciali, tra cantieri, capannoni e villette unifamiliari. Tali sono la sintonia e la comunione tra le musiche di Krano, per lo più fatte di chitarra e voce, le immagini di Sossai e le celibi vicende di questi novelli Gatto e Volpe nonché del Pinocchio contemporaneo che imbarcano sulla loro sderenata Jaguar, che non si può immaginare questa amabile pellicola realizzata in modo diverso. E’ lo stesso Sossai a spiegarlo in un’intervista, evocando il costante rumore di fondo prodotto dai motori dei camion che fa da sfondo perenne al vivere in quei luoghi, un paesaggio sonoro popolato di merci che si spostano e di persone che vagano su auto e moto sempre accese, dragando l’indistinta, interminabile mappa suburbana. Ebbene Krano ha saputo traslare in un’armonia deragliata questo sconcertante contorno sonoro, in equilibrio tra malinconia, stupore e attimi euforici, generando una rilettura specifica del blues, perché nessuna altra musica, se non quella, potrebbe essere presa come riferimento, sulla quale salmodiare con una vocalità che spazia dai toni apatici ai timbri strazianti, in una lingua misteriosa, se non per chi sia nato e abiti proprio in quel quadrante.

  

Quello pronunciato da Krano è un dialetto ultralocale, parlato nei territori che si estendono tra pochi comuni delle colline trevigiane, tra Valdobbiadene e Refrontolo, e contiene in sé una mugolante cifra di lamento cacofonico, nemmeno fosse il mormorare di un vespro, eppure così facendo s’appiccica magicamente alle immagini di questo film contribuendo a farne un gioiello. Vale allora la pena di studiare più da vicino il percorso musicale di Krano e definirne almeno a spanne la traiettoria: si scopre che ha già al suo attivo due album, uno del 2016, “Requiescat In Plavem”, riposa nel Piave, connotato da tinte più spiccatamente country-psichedeliche e poi “Lentius Profundius Suavius”, del 2022, una potente raccolta di canzoni sui temi dell’intimità e della perdita, con un suono che evoca certi quasi ormai dimenticati esperimenti americani, che fondevano il folk del Sud, le pagine di Faulkner e la rilettura gotica del rock’n’roll, tra Cramps e Gun Club. Due album da scoprire e recuperare, concedendo un ascolto più ampio a questo musicista che racconta d’essersi formato su Vic Chesnutt e Nick Drake, ma anche su Piero Ciampi, e d’avere come ispirazione e personale figura-guida quella di Alexader Langer, il politico ambientalista e pacifista sudtirolese, morto suicida nel 1995, nel corso della guerra nella ex-Jugoslavia (il titolo del secondo disco di Krano è tratto proprio da un motto caro a Langer).

 

Perdendosi nei ritmi lenti delle crepuscolari ballate di questo autore ci si ripromette d’andare presto a vederlo da vivo, accompagnato dalla sua band ristretta e da quella sua chitarra elettrica in perenne overdrive, assaporando un’esperienza inedita: ascoltare, come ci è capitato in mille occasioni, una scaletta di canzoni che sentiamo d’amare sebbene fatichiamo a decifrarne i testi. Con la differenza che stavolta non sono nell’accento ruvido del nord-Inghilterra o con le cantilene twang dell’America rurale ma, a modo loro, parlano della nostra stessa Italia. Solo che le parole smarriscono importanza per quel che sono, e i significati arrivano a destinazione per trasmissione emotiva o, in certi casi, addirittura per delle piccole illuminazioni personali. Di quelle che rendono un’esperienza inesauribile tornare sempre alla ricerca di nuove voci da ascoltare.

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