Johann Nepomuk della Croce, La famiglia Mozart, olio su tela, 1780 circa. L'opera è esposta al Tanzmeisterhaus museum (Residenza di Mozart) a Salisburgo, in Austria 

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Un Mozart tra i ragazzini

Francesco Palmieri

Il compositore che ha incantato persino piante e animali raccontato alla generazione Z. Grazie a Peppe Vessicchio

“Mozart armonizza le antitesi più disparate che, prima di lui, avevano turbato pubblico ed autori”

(Guido Pannain, “Lineamenti di storia della musica”)

 

Meravigliosa è la storia di Lucia, che oggi lavora felice in un vivaio del Pistoiese ma molto tempo fa stava morendo perché non mangiava più. Lasciamo che la spieghi chi la raccolse dalla sua stessa voce: “Pesava trentacinque chili. Quando in ospedale i medici dissero che non c’era più nulla da fare, perché stavano venendo meno anche le funzioni cognitive, una persona che era al capezzale di Lucia chiese di poterle far ascoltare della musica. Era una playlist di autori vari. Un ultimo disperato tentativo di riconnetterla al mondo dei sentimenti. Lucia non ha saputo dirmi quanto tempo abbia trascorso all’ascolto di quella musica. Fatto sta che a un certo punto ha aperto gli occhi e ha sussurrato: ‘Per una musica così, vale la pena di vivere un giorno ancora’. Si trattava del secondo movimento del concerto n. 23 in La maggiore K 488 per pianoforte e orchestra di Volfango Amadeus Mozart. Benedetta intuizione”.

 

Quel “giorno ancora” da vivere è durato fino a oggi, e durerà, ma purtroppo chi ha narrato questa storia se n’è appena andato via: la riprendiamo dal libro "Bravo bravissimo! La musica di Mozart il fanciullo geniale del maestro Peppe Vessicchio", pubblicato alla fine dello scorso ottobre, quando lui era già ricoverato in ospedale per la fatale polmonite. Voleva essere, ed è, un testo di divulgazione per ragazzi commissionato dall’editore DeAgostini al maestro, per avvicinare al genio di Mozart una generazione cresciuta tra gli iPad e l’auto-tune, con gli smartphone e il rap. Non ci voleva all’uopo un paludato musicologo ma un volto del pop, un didatta che avesse dimestichezza con i talent e i linguaggi giovanili ma al contempo avesse coltivato la conoscenza del genio salisburghese. Nel suo aspetto meno conosciuto al pubblico, eppure quello per lui più appassionante, Vessicchio si dedicava alla composizione musicale colta e allo studio di Mozart che non si limitava all’espressione estetica, ma a scoprire la chiave per cui le sue armonie facciano produrre più latte alle mucche del Wisconsin. Fu proprio questa notizia il punto di partenza di una ricerca che portò il maestro napoletano a sperimentare l’effetto delle vibrazioni musicali prima sui pomodori, poi sui vini, avviando un confronto con agronomi, fisici, neuroscienziati, studiosi del Cnr. I vini migliorano il sapore, gli ortaggi crescono più buoni senza bisogno di trattamenti chimici grazie a certe frequenze sonore. Non funziona con tutti i musicisti, ma funziona al massimo con le opere di Mozart.

 

Il segreto, secondo Vessicchio, sta nella combinazione degli armonici, nell’equilibrio delle loro attrazioni, nella condotta delle singole parti delle composizioni dove ogni strumento risulta perfettamente funzionale al sistema ma rivela anche una propria “fenomenale autonomia” se viene estrapolato dal contesto. Non è necessario approfondire la teoria per poterne beneficiare: il comune ascoltatore, come succede ai pomodori e alle mucche del Wisconsin, quando è esposto alle frequenze ricavate da quelle armonie, sta molto meglio anche se non sa il perché.

 

Mezzo secolo di pratica nella musica leggera aveva maturato un sano scetticismo di Vessicchio verso i grandi successi più dettati dalle mode che dal valore effettivo: “Provate a chiedere ai vostri genitori i nomi di due o tre cantanti che ascoltavano quando erano giovani. Magari uno di questi l’avrete sentito nominare anche oggi, mentre gli altri no. Un artista che in un certo momento storico può sembrare molto importante, nel giro di un decennio potrebbe essere dimenticato” scrive in Bravo bravissimo!. Tuttavia, anche se accade raramente, qualcuno o qualcosa s’impone sul tempo e così diventa un “classico”. Per spiegare ai ragazzi questo cosa voglia dire, e come mai la musica del “fanciullo geniale” “dopo secoli è ancora in grado di tramutarsi in vita”, Vessicchio traccia un paragone proprio con l’agricoltura e riferisce la vicenda di un suo conoscente, che aveva ereditato una vasta tenuta nei pressi di Gubbio, dove aveva lasciato un campo incolto per tre anni. Lì, un mattino di giugno, spuntarono insolite piantine che coloravano in maniera quasi uniforme il terreno: erano esemplari di miglio bruno. Si pensò che li avesse portati il vento da qualche coltivazione vicina, ma all’analisi le piantine risultarono essere una tipologia di miglio non presente nella banca dei semi, ossia mai catalogata sul suolo italiano. Ulteriori ricerche ne stabilirono la provenienza dall’Europa centrale risalente a qualche secolo fa. “Quel suolo aveva conservato il seme per lui ideale, e quando ha potuto esprimersi liberamente, cioè senza essere forzato a partorire quello che il calendario delle semine decideva per lui, ci ha fatto sapere la preferenza. Allo stesso modo succede con la musica, o meglio con l’arte in generale, che ha la propensione a non estinguersi mai. Piuttosto si assottiglia, infilandosi indisturbata nelle pieghe del tempo, dalle quali, al momento debito, germoglierà con nuova energia”.

 

Così negli anni Settanta, tra le hit delle classifiche mondiali, spuntò “come una splendida piantina alloctona” l’allegro molto della sinfonia n. 40 di Wolfgang Amadeus Mozart eseguita dall’argentino Waldo de los Ríos, che aggiunse alla partitura originale chitarre, basso elettrico e batteria. “Ecco cosa significa ‘classico’”. Ed ecco che questa sinfonia, come tutte le composizioni di Mozart, svela un ulteriore segreto: il difficile equilibrio tra prevedibilità e sorpresa. Quando le frasi musicali si susseguono in forma imitativa, dopo avere ascoltato la seconda il nostro cervello già calcola i possibili sviluppi prevedendo le frasi che dovrebbero arrivare. La conferma offre un senso di compiacimento, ma se indovinassimo sempre l’interesse al gioco ben presto finirebbe, mentre se non riuscissimo a indovinare proprio mai si frapporrebbe una distanza tra noi e la musica. Questo Mozart lo sapeva, perciò prima seduce facendoti intuire lo sviluppo, poi quando pensi di avere già capito tutto sfodera la “sorpresa” (Vessicchio cita come esempio per tutti le misure 39 e 40 e 54 e 55 del terzo movimento della sonata n. 11). “Il nostro compositore non voleva intraprendere una sfida con l’ascoltatore, voleva semplicemente soddisfare la sua fervida mente: molto, molto esigente, quanto nemica della noia. La noia è deprimente, e Mozart ne rifuggiva”.
A due appuntamenti non voleva assolutamente mancare Peppe Vessicchio: la presentazione del libro fissata per domenica 9 novembre e un incontro programmato ad Assisi per sabato 8, proprio il giorno in cui è morto per un inaspettato aggravamento. “Peppe percepiva una possente energia all’interno della basilica di Assisi come in certi altri particolari luoghi sacri che abbiamo visitato insieme. Ho la memoria vivissima di una chiesetta diroccata nel Salento vicino a Copertino, il paese del santo mistico Giuseppe, dove provai un’emozione così forte che mi scesero le lacrime”, ricorda la moglie Enrica Mormile, che sta ritrovando in questi giorni, sparsi per casa, gli appunti per il libro su Mozart con la scrittura a stampatello del maestro, mentre Audrey, la grande schnauzer nera (e quale altro cane avrebbe potuto avere Vessicchio) condivide per sottile intuizione il senso della mancanza. “Lui voleva che gli adolescenti riconoscessero qualcosa di se stessi nel ragazzo Mozart e non lo vedessero soltanto come il sommo genio. Per incoraggiare la lettura aveva reso comprensibile il linguaggio tecnico musicale con un glossario semplificato. Spesso si alzava di notte per tornare al computer e fissare un’idea”. Teneva più a quel libro che a una vittoria a Sanremo.

 

Forse l’introspezione propiziata dal buio prevalente a dicembre favorisce il collegamento di alcuni puntini, sicché la relazione tra la musica, gli animali e la natura riconduce il ricordo a Paolo Isotta, napoletano come Vessicchio, che tali cose descrisse nei libri della sua maturità feconda. Proprio in questi giorni il Conservatorio di Vibo Valentia gli ha dedicato l’aula della biblioteca accogliendo il suo fondo bibliografico musicale (a Napoli, rimanga tra parentesi il j’accuse per carità di patria, non si trovò lo spazio). Come per Vessicchio, anche per lui la scomparsa fisica si è intromessa tra la scrittura e la diffusione di un libro (San Totò), ma di entrambi non intralcerà il ricordo: “Ihr wandelt durch des Tones Macht/ Froh durch des Todes düstre Nacht!” (“Con la potenza del suono attraversano lieti la notte tetra della morte!”). Sono due versi dal libretto de Il flauto magico di Emanuel Schikaneder, che si leggono alle pagine 220 e 221 dell’edizione Adelphi, pure pubblicata a ottobre scorso e che abbiamo aperto a caso giusto adesso per cavarne un responso, come s’usava fare un tempo sfilando certi volumi degli scaffali domestici. Una divinazione che avrebbe fatto sorridere Vessicchio e Isotta, ma che entrambi avrebbero considerato attendibile perché chi ha amato Il flauto mozartiano sa quanta verità nasconda il gioco; sa che il mito e la simbologia di questo Singspiel, proprio perché “è una via di mezzo tra la favola iniziatica e il varieté, o il teatro di burattini” (Isotta) si rivolgono “veramente a tutti, colti e ignoranti, adulti e bambini, credenti e scettici” (Vessicchio). 

 

Anche Wolfgang amava gli animali, s’appassionava ai fiori e alla natura la cui bellezza “in estate era un piacere incantevole per il suo sensibilissimo cuore”, notò il suo secondo biografo Franz Niemetschek. Vessicchio paragona le sonate per piano mozartiane a una gita in campagna: il primo movimento è simile al paesaggio di una piantagione di limoni a giugno, che s’attraversa a piedi mentre cambia aspetto e luce procedendo dalla valle alla collina, proprio come con le variazioni cambia la melodia; si ridiscende dall’altura ed è un adagio riposante che predispone alla vista successiva, ossia l’arrivo del tramonto dai colori così accesi da restare senza fiato: l’“allegro fa così il suo ingresso vincente e porta in maniera scoppiettante il movimento al suo finale”.

 

Propone metafore simili, per coincidenza, un libro uscito poco prima del Mozart di Vessicchio, come se gli autori si fossero parlati (ed è un peccato che non l’abbiano mai fatto). Susanna Tamaro, in un capitolo di La via del cuore, descrive la “sinfonia” della campagna: “Il preludio comincia alla prima luna di febbraio, con la nascita dei capretti, prosegue nell’ouverture quasi rossiniana del mese di maggio, con il trionfo delle impollinazioni e dei corteggiamenti, per poi sfumare nel mesto adagio che segue Ferragosto, quando il canto dolcemente ossessivo dei grilli inizia ad affievolirsi e le poche rondini rimaste garriscono per chiamarsi a raccolta e affrontare insieme il lungo viaggio verso l’Africa. In autunno la musica diventa dodecafonica – ogni canto si spegne, rimangono solo dei cinguettii sperduti, lo scroscio della pioggia, il rumore del vento che percuote gli alberi, spezza i rami facendoli tremare come dita ghiacciate e la nebbia sale ad avvolgere ogni cosa con il suo manto silente. Poche note solenni accompagnano il gran finale – la quiete dell’inverno, con la neve che cade e ricopre il paesaggio. Anche il nostro cuore riposa,” conclude la scrittrice, “illuminato dalla splendida luce del riverbero”.

 

Ora le “poche note solenni” che possiamo ancora compitare nello struggimento di un Re minore, come quello del Requiem K 626, sono cavate da un sabato d’Avvento napoletano tra la folla dei turisti che rende improba la camminata nelle vie del centro storico. Malgrado tutto però vale la pena ripassare davanti al Conservatorio di San Pietro a Majella: da queste parti l’adolescente Wolfgang fu portato dal padre per carpire ulteriori segreti agli insigni compositori locali. Sul muro di fronte c’è ancora un manifestino d’addio al maestro Vessicchio, che duecentocinquant’anni dopo umilmente, scientificamente cercò di capire come mai quel portentoso musicista indorasse persino le piante e gli animali di indicibile magia.

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