tournée asiatica
Amare Brahms a Pechino
L’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia in tournée in Asia. Il pubblico del futuro e l’Europa che ha perso il monopolio della sua tradizione. La fabbrica dei talenti, la musica come soft power. Reportage
Pechino. Dev’essere una forma di riguardo per la musica e gli interpreti o forse solo per l’etichetta, rovescio fin troppo prescrittivo a sua volta degli applausi a comando che i nostri talk-show televisivi ci costringono a sopportare. Succede quando, dopo aver scaldato gli animi con l’Ouverture dei Vespri siciliani di Verdi, il concerto dell’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia nell’auditorium del Centro nazionale per le arti dello spettacolo di Pechino entra nel vivo con il Concerto in Sol di Ravel, con il suo spumeggiante caleidoscopio di ritmi e colori. Non appena si interrompe la frenetica coda del primo movimento, non appena Beatrice Rana stacca le mani dal pianoforte, si riaffacciano discrete da dietro le colonne della sala due o tre giovani maschere per settore: danno le spalle al palcoscenico, sono rivolte al pubblico, in mano un cartello in forma di segnale stradale (come un divieto di sosta con due manine emoji al centro) che inibisce l’applauso.
La buona educazione che rasenta il politicamente corretto: cari spettatori, non facciamoci riconoscere, a un concerto non si applaude tra un movimento e l’altro dello stesso brano. La raccomandazione si direbbe rivolta a neofiti della sala da concerto o a quelle non rare poltrone in cui vedi spuntare dallo schienale solo la testolina di un ascoltatore bambino. E probabilmente nelle intenzioni è così, ma poi due concerti e tre giorni di Cina bastano per resettare sul campo qualche opinione un po’ troppo scontata e per farsi un’idea più aderente alla realtà del miracolo della musica classica occidentale nell’estremo oriente: dalla falange di interpreti che spadroneggiano da diversi anni nei concorsi pianistici internazionali, e da lì poi sui principali palcoscenici europei e americani, al pubblico che li segue e li ama, dal vivo e sui social, e che riempie le sale e risponde con acclamazioni da stadio (è successo a Taipei e a Seul per questa tournée di Santa Cecilia) quando arriva l’orchestra blasonata del Vecchio continente. Altro che dummies da educare all’applauso.
Insomma, la musica “classica” di tradizione europea non è merce poi così rara qui, all’altro capo del mondo, anzi. Basta mettere tra parentesi il decennio famigerato della Rivoluzione culturale, tra i Sessanta e i Settanta, in cui musica e cultura occidentali erano dichiaratamente bandite, per trovare un filo rosso di interesse curiosità studio e relazioni che parte da lontano. A Shanghai, per esempio, da quando non aveva ancora i grattacieli con tutti i loro led multicolori e nemmeno i 24 milioni di abitanti di oggi: il claim “illuminiamo la città dal 1879” accostato all’immagine di una lampadina vintage accompagna una campagna di marketing dell’Orchestra sinfonica di Shanghai. In quello stesso 1879 entrarono infatti in funzione qui per la prima volta in Cina le lampade elettriche e fu fondata la Banda pubblica di Shanghai, prima formazione orchestrale cinese ed embrione dell’attuale complesso sinfonico, da una ventina d’anni ospite con una certa regolarità delle principali istituzioni concertistiche europee e americane. Forse anche le lontane affinità elettive – giusto un secolo fa la Sinfonica di Shanghai conosceva il suo primo periodo d’oro grazie a un direttore italiano, Mario Paci, e a una decina di connazionali ingaggiati da lui per consolidare le file dell’orchestra – hanno fatto della sua sede, la Jaguar Symphony Hall, una bella sala dall’acustica perfetta curata dal mago Yasuhisa Toyota, la prima tappa obbligata in Cina del tour asiatico dell’Orchestra di Santa Cecilia, cominciato a Hong Kong e a Taiwan e concluso poi in Corea del sud, toccando sei città per dieci serate lungo un itinerario di oltre 22 mila chilometri.
Anche a Shanghai, dopo l’alzabandiera verdiano con l’Ouverture dei Vespri siciliani, Daniel Harding ha proposto il Concerto di Ravel, con Beatrice Rana solista, e l’impegnativa Seconda sinfonia di Rachmaninoff (che ha ceduto il posto in una delle due serate a Pechino a una applauditissima Seconda sinfonia di Brahms). Singolare accostamento di due pagine, scritte da due autori pressoché coetanei ma a una ventina d’anni di distanza l’una dall’altra (e si sentono tutti), che almeno nel movimento lento sembrano parlare della stessa cosa, tradurre in musica un sentimento, ma non potrebbero farlo in modo più diverso. Massimamente seduttivo nelle folate lascive degli archi Rachmaninoff; terso, sorvegliato nelle sonorità come trasfigurate in un ricordo, Ravel. E la lettura di Harding monta al meglio la mousse Rach senza coprirne la nervatura (ascolti questa sinfonia e senti che prima c’è stato Ciajkovskij e dopo verrà Shostakovich) e mette a punto l’alta orologeria di Ravel, la sua orchestrazione magnifica ed essenziale, mentre Beatrice Rana cattura sulla tastiera tutti i richiami della scrittura, un melting pot che evoca il jazz e motivi baschi, e vola sulle notine dell’Adagio facendone sempre racconto, mai calligrafia.
Beatrice Rana non aveva mai suonato in Cina. Due giorni dopo, a Pechino, in una breve pausa dalla prova di sala la pianista italiana confessa l’emozione ed è convinta che questo, come ha già percepito a Taiwan e lo scorso anno a Singapore, sia il pubblico del futuro. “Una situazione sorprendente rispetto all’Europa, colpisce l’entusiasmo primitivo che manifestano”. Daniel Harding ha maggiore confidenza con questo oriente, dove ha diretto più volte: dal 2024 poi è direttore musicale della Youth Music Culture Greater Bay Area, un progetto della regione cinese della Greater Bay (Guangdong, Hong Kong e Macao) dedicato alla formazione orchestrale di giovani talenti. Ma si stupisce ancora di aver visto dal podio, durante il concerto a Pechino, una bambina – “avrà avuto cinque o sei anni” – seduta proprio di fronte a lui, nelle poltrone alle spalle dell’orchestra, attenta e conquistata dalla musica per tutta la durata della sinfonia di Rachmaninoff (impressione che rimbalza in platea: tanti i giovani e non pochi i bambini. Le due piccole con la madre proprio nella fila davanti a me non hanno dato alcun segno di impazienza o di stanchezza. E in risposta alla mia ammirazione, a fine concerto la più grandicella ha confidato in buon inglese di studiare il pianoforte. E candidamente ha ammesso che comunque non si sarebbe potuta addormentare, perché la musica era… troppo forte).
Educazione musicale e investimenti pubblici sono la chiave evocata da molti, anche da Rana e da Harding, per spiegare l’interesse di questo pubblico e l’eccezionale fabbrica di talenti orientale, e pure di capire per converso, con la loro latitanza, l’invecchiamento delle nostre sale da concerto e quel po’ di indifferenza che aleggia sulla vita musicale in Italia e in Europa a meno del cosiddetto evento o, nell’ambito dell’opera, della messinscena provocatoria. Per non andare troppo lontano, basterà ricordare che per questa intensa tournée, i cui costi sono facilmente immaginabili, l’Accademia nazionale di Santa Cecilia non ha percepito alcuna sovvenzione pubblica: le fondazioni musicali che portano il loro prestigio e anche quello del paese all’estero non hanno più diritto a un contributo statale per le trasferte.
C’è dunque un’Europa che ha creato questa magnifica tradizione e oggi ci si è un po’ accomodata sopra, e ci sono altri paesi, altre culture, che l’hanno studiata, assorbita e rilanciata con un vigore che a noi dev’essere venuto un poco a mancare. L’Europa è ancora un punto di riferimento simbolico e istituzionale (a Pechino poco prima di Santa Cecilia si sono esibiti anche i Wiener Philharmoniker e la Staatskapelle di Dresda, in occidente i concorsi pullulano di interpreti orientali, in molte classi di canto dei conservatori italiani la prima lingua rischia di essere il cinese) ma di questa tradizione l’Europa non ha più il monopolio. Agli occhi del mondo, la Cina ha avuto un pifferaio magico: Lang Lang, il pianista di Shenyang che si sarebbe innamorato del suo futuro strumento a due anni, vedendo un cartone animato di Tom e Jerry. Nel 2001 il debutto alla Carnegie Hall di New York, nel 2008 l’esibizione alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino. Da lì i trenta milioni di studenti di pianoforte cinesi che sono diventati quaranta, le migliaia di iscritti ai conservatori, la pittoresca esplosione dell’altra star pianistica nazionale, Yuja Wang, combinati con il crescente interesse del regime per la promozione della cultura musicale, soft power da coltivare. Un pannello in una galleria dell’Uovo, come viene chiamato per la sua ardita architettura il Centro nazionale per le arti dello spettacolo, costruito accanto alla piazza Tiananmen e inaugurato nel 2007, lo dice a chiare lettere: il Centro “contribuirà alla costruzione della civiltà cinese moderna, allo sviluppo di una potenza culturale… al rafforzamento del soft power culturale del paese e dell’influenza della cultura cinese”.
Sul terreno individuale di un’indubbia passione, del culto orientale per la disciplina, dello studio e della curiosità di mondi lontani (ah, l’ingegnere informatico che paragona la posizione di Taiwan sull’intelligenza artificiale a quella di Cremona per la musica alla fine del Seicento: i chip come i violini di Stradivari – letto nel recente La Cina ha vinto, di Alessandro Aresu), la Cina e ancor più la Corea hanno costruito un sistema educativo organizzato e competitivo, per certi aspetti feroce. Yunchan Lim, giovanissimo vincitore del Van Cliburn nel 2022 – 18 milioni di visualizzazioni il suo Rach 3 su YouTube – che si è alternato al pianoforte con Beatrice Rana nel Concerto di Ravel in questo tour di Santa Cecilia; Seong-Jin Cho, vincitore del concorso Chopin nel 2015, che ha Lupu e Zimerman come suoi idoli pianistici ed era stato uno dei solisti dell’ultimo tour di Santa Cecilia in Cina, sette anni fa; Aozhe Zhang, di Shanghai, premio Paganini 2025; Yifan Wu, vincitore dell’ultimo Premio Busoni, sono solo alcuni prodotti di questo sistema. Che mostra le sue virtù, perché questa generazione di interpreti sembra essersi scrollata di dosso il luogo comune di essere tutta tecnica e poco approfondimento stilistico ed espressivo, e riesce a nascondere il vizio di un’impostazione al nostro sguardo occidentale troppo coercitiva.
Ma è anche vero che proprio quella rinnovata libertà interpretativa sembra indicare un’apertura, l’evasione forse solo sul piano individuale da un sistema sociale chiuso, dal ferreo sistema di controllo che percepisce anche il visitatore occasionale nelle strade di Pechino e Shanghai e nelle maglie della rete. La stessa apertura che si coglie nello sguardo di un ragazzino che vuole fare due chiacchiere in inglese con lo straniero nella Città proibita. Lo stesso sintomo di libertà che prorompe con un applauso fuori tempo, in barba ai cartelli delle maschere, sulle prime note di un bis tutto cinese dell’orchestra italiana.