Geografie minori

“Satantango”: restare ai margini per essere veri. Un disco minuscolo e universale

Enrico Cicchetti

L'album d'esordio dell'omonimo duo cremonese mette in chiaro la differenza tra essere outsider per condizione geografica ed esserlo per scelta poetica. “Siamo orgogliosamente provinciali. Ci aiuta a stare lontani dall’omologazione". Cinema, disillusione e nebbia

Quando si parla di “provincia”, il rischio è quello di usare termini come resilienza, decrescita, genuinità, riscoperta... A forza di rimestare e diluire, quella zuppa s’è fatta tiepida e sciapa. Ma basta spostare lo sguardo, per accorgersi che qui la profondità ha un’altra consistenza. È una forma di percezione: più nitida, più tagliente. Forse per via dei minuti risparmiati al traffico e alle file e regalati ai pensieri, forse per quel silenzio che aderisce alle cose come una patina. O perché, ai margini, lo sguardo impara prima a distinguere l’essenziale. Nella musica italiana, c’è un quadrante particolarmente fertile: quella fetta di nordest che va da Venezia alla Bassa padana, dalla Mantova dei Bee Bee Sea alla Valdobbiadene di Krano, alla Vicenza di Elli de Mon. Lo sanno bene a Rockit, magazine e comunità virtuale che, da decenni, con il concorso King of Provincia prova a intercettare ciò che di buono si muove fuori dal centro. E pure quelli di Dischi Sotterranei (ne scrivevamo qui), che in Veneto hanno scovato e lanciato nomi come Post Nebbia, Jesse the Faccio, Laguna Bollente e C+C=Maxigross. Nel loro roster è da poco entrata anche l’incantevole voce di Valentina Ottoboni che insieme a Gianmarco Soldi sforna un disco d’esordio notevole: Satantango, che poi è anche il nome del duo cremonese, dal vivo il 14 dicembre al Bronson a Ravenna e il 20 a Milano all'Arci Bellezza. Come nell’immenso, omonimo film di Béla Tarr, anche qui tutto scorre lento, vischioso, inevitabile. Ma a differenza di quel villaggio ungherese in disfacimento, nel disco non c’è rassegnazione: c’è una consapevolezza nitida, che appartiene a una generazione cresciuta sulle promesse dell’infinito e poi consegnata a un futuro deludente. Consapevole però che la disillusione può essere un punto di partenza. Magari i Satantango non inventano nulla, ma centrano il bersaglio. Mettono in chiaro la differenza tra essere outsider per condizione geografica ed esserlo per scelta poetica. “Siamo orgogliosamente provinciali”, dicono. “La provincia è decadente e le possibilità sono poche, ma le siamo molto affezionati. Ci aiuta a stare lontani dall’omologazione, a essere più personali, più liberi di sperimentare. Siamo outsider per scelta: qui c’è anche più fame, più voglia di dimostrare che anche a partire da un posto minuscolo si riesce a fare qualcosa”.

 

Satantango è un disco che affiora, come certe immagini in camera oscura, quando l’acido rivela poco a poco ciò che già era lì, in attesa. Che emerge – dalla nebbia, dalle strade dritte che uniscono paesi identici eppure mai uguali – con la naturalezza di chi ha qualcosa da dire. È fatto di auto che sfrecciano nella notte, di treni persi, di fughe a fari spenti. Ma poi c’è sempre un ritorno (“Bruciamo casa e torniamo nelle foreste / Tanto Milano è buona solo per le feste”). “Siamo cresciuti in un periodo in cui era difficile resistere all’attrazione della grande città, dell’estero, della ricerca del lavoro – e forse della felicità – a Londra o in America. Poi qualcosa è cambiato”, raccontano Valentina e Gianmarco, oggi poco più che trentenni. Così ecco brani come Gioventù amore e rabbia o 11.9, che prende “l’undici settembre come simbolo della fine del sogno americano d’importazione. Racconto privato di un fatto globale, che ha aperto gli occhi a una generazione: ci siamo resi conto che forse non sarebbe andata come ci avevano promesso, che anche se ‘vuoi’ spesso non ‘puoi’. L’album è molto cinematografico ma è anche quasi tutto autobiografico, a partire dai luoghi che racconta, sin dalla foto di copertina: la vecchia centrale idroelettrica dietro casa, che recentemente è stata ristrutturata, e un po’ ci dispiace. Proviamo a non giudicare, ma a rianimare ricordi e nostalgie, a creare una bolla sonora in cui entrare”.

  

    

In un’epoca ossessionata dalla perfezione, si dicono “stufi delle produzioni patinate” e rivendicano “un suono più sporco, una voce ogni tanto stonata ma molto più vera, alcuni pezzi hanno degli elementi volutamente fuori tempo. Abbiamo provato a rifare qualcosa: suonava meglio, ma mancava la magia”. Il sound è una specie di foschia elettrica: uno shoegaze che non ha fretta di esplodere, un dream pop arrugginito. Muri di chitarre avvolgenti, riverberi che sembrano arrivare dalle stanze vuote dell’infanzia, improvvise aperture luminose dentro una materia sonora densa e granulare. E quelle storie minuscole e universali, che valgono la pena di essere ascoltate. “Tu prestami ancora / Parole sporche come la provincia / ‘Ché ormai non c’è la neve / Neanche più in pubblicità”.

 

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  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti