Senza fine, Ornella Vanoni sembrava esistere fuori dal tempo
Dalla diva che scandalizzava in biancheria nera alla signora che giocava con la propria caricatura, La cantante rimane un mistero affascinante: un pezzo unico che nessuna critica, né il tempo, riescono a scalfire
Qualcosa deve significare: l’unica volta in cui ho acquistato in edicola una rivista pornografica fu perché in copertina c’era Ornella Vanoni. “Playboy”. Gesto consumato alla Stazione Termini sebbene l’esperienza si rivelò poco soddisfacente, perché Ornella aveva accettato di spogliarsi ma poco, in pose un po’ artistiche, con addosso molta biancheria (nera, dice la memoria visiva), nello stile che ancora si usava ai tempi di “Abc”, erotismo di sinistra da barberia, niente di sconvolgente. Eppure la cosa, la sfidante prodezza della cantante già al culmine della fama, fece assai rumore, ovviamente venne aspramente giudicata, garantì vendite eccellenti e non ricevette da lei nessuna particolare giustificazione, perché così era nel personaggio. Però qualcosa di straordinario nel suo fascino doveva esserci, se un consumatore di musica e di televisione di tutt’altri generi, si era umilmente messo in fila per comprarsi quell’occhiata patinata dal buco della serratura. L’unica risposta possibile è che Ornella Vanoni stava – è sempre stata – in una categoria a parte, dove sono pochissimi/e, fanno come gli pare, rilasciano periodiche stille di talento con ferma sicurezza e infine risultano o diventano icone intangibili, “divine” proprio per l’impossibilità di demolirle, non certo con le critiche, figuriamoci se con la morte, che al di là dei diffusi dispiaceri, non cambia un capello della sua grandeur.
Invece assistevo con più imbarazzo alle ultime sortite tv di Ornella, che evidentemente non ha mai rinunciato al piacere di guadagnare un bel cachet per farsi rimirare, accondiscendendo perfino a mettere in scena quella specie di realtà aumentata di se stessa, una ornellissima, più svanita, più sboccata, più libera, più malferma che mai. C’era una diffidenza, per esempio, guardando Fabio Fazio che le andava dietro come l’infermiere di una convalescente dalla frattura al femore, quello sempre con l’aria d’afferrare al volo il vaso cinese che cade, e lei che manco se n’accorge. C’era un filo d’eccesso caricaturale, sia pure affettuoso e da lei tollerato, un po da pochade. Lei poi, in sostanza, se ne fregava e quando arrivava il momento di cantare, se ne aveva voglia, sfoderava una lucidità che si riallinea a quel talento cristallino di cui sopra, una che sa come si fa e lo saprà sempre, è un dono naturale, è soltanto un mostrarsi, non un interpretare. Però, l’uso, diciamo così, che si è fatto di lei in queste trasmissioni, certe volte era sconcertante: Ornella diventava la sopravvissuta di qualcosa che adesso non è più permesso, l’essere la diva dai tracciati zigzaganti, dentro e spesso fuori la regola del gusto consentito, insensibile alle trasgressioni, la signora che si fa una canna per dormire, che sa di poter dire ciò che pensa quasi per dispetto, a volte col birignao di scandalizzare, perché si può pensare che lei stessa si sia assoggettata alla parte dell’ultima stravagante, superstite di una società italiana dello spettacolo diversamente moraleggiante, nella quale alla fine l’aveva avuta vinta, perché era stata capace di trovare in se stessa le motivazioni – per certe scelte artistiche, per iniziare e finire certe relazioni, per dire dei sì e dei no non scontati, per giocare una parte diversamente attiva, riconosciuta e rispettata – la Ornella strana, brava e senza guinzagli.
Il fatto è che, in questo paese per vecchi, per una vasta fascia anagrafica a permanenza della Vanoni e di un altro nutrito drappello di protagonisti (chessò Patti Pravo, per dirne una) è pura immanenza, include il post-mortem, trapassa tempo e spazio, ci sono sempre perché ci sono sempre state, nemmeno la nostra vita fosse raccontata soprattutto dal Techeteche estivo della Rai, più che altro in bianco e nero, dove a volte ritornano tutti, ed ecco Ornella, in effetti splendida – ti credo che sono finito in quell’edicola della stazione - sempre così adulta, pure se era una ragazza, perché l’aria vissuta ce l’ha avuta in dote e, per arte e per dono naturale, a compendio ci ha messo quelle acconciature magnifiche, quegli abiti categoricamente senza maniche, trionfo di sinuosità, morbidezze, seduzione delle braccia sottili mosse con sapienza innata, facendo sospirare gli italiani, che si facevano andar bene pure la storia della “cantante della Mala” – la ricordate? voce profonda, sguardi trasversali, chiaroscuri – nemmeno Ornella fosse la versione “sabato sera” della pupa del gangster, e la ricorrente musa dei solisti intelligentoni, Paoli, Strehler e vai con Milano locomotiva nazionale. C’è un bel film, passato sotto silenzio, diretto da Elisa Fuksas che esplora non tanto la risaputa biografia di Ornella, ma il mistero dei suoi bioritmi, l’organizzazione surreale del suo tempo, le scelte soprendenti del questo sì e questo no. Si chiama “Senza fine”, è girato in un albergo vuoto di Castrocaro e nella fallimentare scena madre prevedeva Ornella impegnata in un simbolico bagno in piscina tra grandi veli e chissà quali agnizioni. Lei però la prende male, non ha voglia, gli va storto, presto si stufa, e il film ha l’ardire di lasciare questa scena, di raccontare che senza fine è soprattutto il tentativo di avere da Ornella quello che gli chiedi e non quello che vuole darti. Diciamo che un segno della sua classe, roba da pezzi unici, Piaf, Bardot, Mina e Ornella, femmine colossali e dominanti, che tolgono il respiro, fanno sognare, seguono come un’ombra e ti turbano, e ogni volta che te ne accorgi hai una vaga sensazione di peccato, che chissà da dove diamine ti arriva.
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