Ansa
“LES INDES GALANTES”
Tutto si può fare, anche un Rameau messo in scena alla Scala. Sarebbe ora
Se la materia teatrale dell'opera "Les Indes Galantes" è debolissima e il libretto di Louis Fuzelier insulso, Jean-Philippe Rameau, il più grande operista francese del Settecento, ti spiazza a ogni battuta con le sue continue trouvailles ritmiche, coloristiche e armoniche
Ma allora “si-può-fa-re!”, urlato come in “Frankenstein Junior”. Sì, alla Scala si può fare Jean-Philippe Rameau, il più grande operista francese del Settecento (e non solo), di cui il teatrone, a memoria di diversamente giovane come me, non ha mai messo in scena un titolo. Solo ospitate, e in forma di concerto. Come “Les Indes Galantes”, applauditissima domenica con la Cappella Mediterranea e il Choeur de Chambre de Nabur, formidabili l’una e l’altro, diretti da Leonardo García-Alarcón. Certo, piace vincere facile: questa opéra-ballet del 1735 è infallibile e regge meglio di altre l’esecuzione semiscenica perché, di fatto, è senza drammaturgia.
Nel prologo, Ebe esorta i giovani a fare l’amore, sempre beninteso dandosi del “vous”, e Bellona la guerra (era in corso quella di successione polacca), poi Amore disperde gli eroi ai quattro angoli della terra. Quindi, quattro entrée: il Turco, ovviamente “généreux” com’era diventato di moda nell’Illuminismo, gli Incas del Perù, i Fiori alla corte persiana (questa di fatto tagliata alla Scala, a parte il sublimerrimo quartetto con coro “Tendre amour”) e poi i Selvaggi, quelli americani, con la celebre danza del calumet della pace che è diventata una hit dell’attuale movida baroccara e che infatti anche alla Scala è stata bissata a furor di popolo.
Se la materia teatrale è debolissima e il libretto di Louis Fuzelier insulso, cosa non strana trattandosi di un critico, Rameau ti spiazza a ogni battuta con le sue continue trouvailles ritmiche, coloristiche e armoniche. Una meraviglia dietro l’altra, con favolose descrizioni strumentali di terremoti ed eruzioni vulcaniche, lirismi trasognati e sensualissimi, e danze e contraddanze che ti fanno venire voglia di alzarti e metterti a ballare come in una discoteca barocca. Tagli a parte (un po’ troppi, in effetti), esecuzione eccellente, senza eccessi ba-rock ma vivacissima ed elegante insieme. L’orchestra suona assai bene e ostende delle prime parti da favola: sugli scudi flautista, percussionista – di tutto: timpani, tamburi, nacchere e campane – e i titolari di flageolet, un piccolissimo zufolo, e della musette, la versione bretone della cornamusa. Il Coro è straordinario per precisione, agogica e dizione, per cui non si perde una parola. Forse meno significativi i quattro cantanti, che hanno voci un po’ piccole per la Scala ma comunque educatissime, magari perfino troppo perché all’epoca tutti i viaggiatori italiani in Francia si lamentavano di quanto ci si cantasse male (anche se i latrati della cosiddetta “école du cris” diventarono endemici più avanti, in zona Gluck).
Comunque i due soprani, Laurène Paternò e Ana Quintans, sono un po’ puntuti ma efficacissimi; il basso, Andreas Wolf, stupisce per alcuni spettacolari “diminuendo”; Mathias Vidal falsetta in un modo che stupisce chi non sa che non di tenore “moderno” si tratta, ma di un haute-contre. Della direzione esemplare di García-Alarcón s’è detto; del tripudio, anche. E ora la Scala si dia una svegliata e metta in scena un Rameau (magari Platée che mi piace tanto, grazie).