
suono lento
Edda: “Il rock non è morto, siamo noi che ci distraiamo”
Con “Messe Sporche”, il settimo album solista, torna al cuore del suono: solo chitarre, basso e batteria, nessun filtro digitale. E riscopre il vinile, il tempo, la fatica “Non cerco il successo, solo un suono che resti. La musica è il mio viaggio e finché avrò qualcosa da dire continuerò a farla”
“Ho voluto che questo nuovo album uscisse solo in cd e in vinile. È un modo per tornare a fruire la musica come ai tempi in cui ero ragazzo. Non c’è niente di male a usare le piattaforme digitali, ma stavolta ho voluto fare così”. Con queste parole, Edda racconta al Foglio il suo nuovo album “Messe sporche”, uscito a tre anni dal precedente “Illusion” prodotto da Gianni Maroccolo. Figura iconica della scena rock italiana degli anni Ottanta e Novanta, prima con i DHG e poi con i Ritmo Tribale, Stefano 'Edda' Rampoldi ha segnato un’epoca con la sua voce graffiante e il suo approccio rock'n'roll. Il nuovo album è il “frutto di un lavoro enorme del maestro Luca Bossi” (già con l'artista per i precedenti dischi “Graziosa utopia” e “Fru fru”), racconta il cantante milanese, interamente suonato con strumenti “artigianali”, senza alcun aiuto digitale. “Mi sono completamente affidato a lui”, rivela. Chitarra, batteria e basso creano un sound che mescola il rock classico dei T-Rex e dei Led Zeppelin con la grinta grunge di Nirvana e Mudhoney. Nove tracce in cui Edda racconta storie di vita, emozioni e riscopre sé stesso, senza compromessi, in un formato fisico che privilegia l’ascolto “lento e consapevole”. È atteso a novembre e dicembre sui palchi dei club di Bologna, Firenze, Bergamo, Pisa, Lido Adriano (RA), Roma, Caserta, Milano e Torino. In un’epoca dominata dalle playlist digitali e dalla musica usa e getta, il disco del cantante milanese rappresenta un gesto quasi romantico: riportare il rock alla sua dimensione più autentica, fisica e tangibile, come quando le canzoni erano qualcosa da ascoltare e vivere, non solo da scorrere su uno schermo.
Com'è nato “Messe sporche”?
Luca Bossi mi ha chiamato e mi ha detto, “dai, è il momento di fare un altro disco, sei pronto?”. Io ho risposto di no. Ma lui ha insistito dicendomi, “beh, allora facciamo lo stesso.” Così, partendo da quattro canzoni, siamo arrivati a nove. Alla fine, devo dire che è stato giusto farlo: se non avessi fatto questo disco, sarei rimasto chiuso in camera a suonare la chitarra e basta.
Quindi non si sarebbe fermato.
La musica è stata sempre una mia necessità. Avrei continuato a suonare in casa, a esibirmi da solo. Anche ora, mi sto impegnando a migliorare come chitarrista e a non mollare mai. Se qualcuno non mi avesse tirato fuori dalla mia cameretta, avrei continuato così per tutta la vita.
Dopo tanti anni di carriera lei riesce ancora ad emozionarsi sul palco?
Io mi emoziono ancora moltissimo. Mi preparo, provo, cerco di arrivare pronto al momento in cui tutto inizia e il pubblico è davanti. E ogni volta, anche ora che sono un uomo maturo, la sensazione è la stessa di quando ero un ragazzino.
In un’epoca dominata dal pop e dalle playlist usa e getta, ha ancora senso fare rock?
Assolutamente sì. Guardiamo i Maneskin, loro dimostrano che il rock è vivo. Io ho iniziato con questo linguaggio da ragazzo e ancora oggi mi ci trovo bene. La musica cambia, passano gli stili, ma il rock è energia pura, ti permette di esprimerti in modo diretto e potente. E non sono l’unico che lo fa in Italia: anche durante la registrazione del disco mi hanno chiesto di cantare canzoni di altri gruppi rock.
Tornando indietro, come ricorda il periodo nei Ritmo Tribale tra gli anni Ottanta e Novanta?
Quei tempi rimangono impressi come bere acqua: l’energia del live, il rapporto con il pubblico, l’emozione. E non cambia. Anche oggi sento la stessa adrenalina. Il palco è sempre il luogo dove tutto si amplifica.
Dopo un periodo lontano dalla musica, con esperienze in India e nei cantieri, cosa l'ha riportata al rock?
All’inizio è stato quasi per gioco, senza grandi intenzioni. Poi non sono riuscito a trattenermi. Ho aperto il mio canale YouTube nel 2008 grazie a un amico, e da lì tutto è ripartito. È stato un incontro fortunato che ha messo in moto tutto ciò che poi mi ha portato a oggi.
Manuel Agnelli ha detto che è stata un'ispirazione per gli Afterhours. Cosa ne pensa?
Mi fa piacere sentirlo, ma credo che Manuel sarebbe diventato ciò che è anche senza di me. Non sento di avere “figli” artistici. Ogni musicista ha la propria sensibilità, la propria esperienza. Siamo tutti universi paralleli.
Guardando al futuro, cosa si aspetta dalla sua musica?
Non sono una persona che cerca il successo o riconoscimenti. Voglio solo continuare a scrivere, a suonare, a vivere. La musica è il mio viaggio, e finché avrò qualcosa da dire, continuerò a farlo.



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