Morto e risorto

La parabola di Edda, punk e Hare Krishna

Vittorio Bongiorno

La nuova musica dopo gli anni dell’eroina. I trapper? “Una forza che neanche i Sex Pistols”

Milano, anni 90. All’apice del successo come cantante del gruppo rock Ritmo Tribale, a tour già cominciato, Edda aveva deciso di uscire dal gruppo. Aveva già fatto qualche piccola fuga, lasciando la band spesso nei guai, tanto che uno dei due chitarristi aveva dovuto prendere il suo posto al microfono. Ma stavolta aveva deciso: definitivo. Non ce la faceva più. Non gli interessava più quella messa in scena che si ripeteva ogni sera, non gli interessava più probabilmente nemmeno la musica, che pure aveva amato tanto e che era stata per trent’anni il suo unico nutrimento, la sua unica fonte di gioia. Aveva un nuovo “amore”, una nuova “compagna”: la droga. E tutto quello che voleva era, semplicemente, scomparire e dedicarsi solo a lei. Notte e giorno, nonostante avesse già abbracciato la fede Hare Krishna. Gli amici di sempre con cui era cresciuto – i Tribali – un po’ se l’aspettavano, ma lo choc fece vacillare la band, che continuò senza di lui per un paio di album e poi, inevitabilmente, si sciolse.

 

Di Edda si erano perse le tracce: letteralmente svanito nel nulla. Qualcuno diceva che era addirittura morto. Per più di dieci anni nessuno ne aveva parlato più, fino a una sera di ottobre 2009 in cui, a sorpresa, Stefano Rampoldi – questo il suo vero nome – non era ricomparso in scena, invitato da Daria Bignardi alla sua trasmissione “L’Era glaciale”. A dire il vero non sembrava nemmeno più Edda: era entrato in studio impacciato, un po’ ingrassato, senza capelli – lui che in concerto sfoggiava una lunga criniera molto rock and roll – in tuta e scarpe da ginnastica, come un uomo comune. Come un impiegato, non come la rockstar che aveva ammaliato anche il sottoscritto, a causa di una fuga, da ragazzino, dalla Sicilia a Milano solo per andare a un suo concerto. Alle domande dirette della Bignardi, che lo chiamava ancora Edda, lui rispondeva con altrettanta schiettezza: cosa aveva fatto in quel buco nero temporale, la droga, e come la musica – che aveva tradito una volta – l’aveva infine salvato

   
Toscana, oggi. In un dolce finale d’estate vado a trovarlo nel suo buen retiro per ascoltare in anteprima “Illusion”, il nuovo album in uscita a fine settembre, una decina di canzoni che ruotano intorno al concetto sacro, in sanscrito, dello strato superficiale che ricopre la vera essenza delle cose. Ed è una sorpresa, anche per un fan della prima ora come il sottoscritto.

    
“Non ce la facevo più, avevo trentatré anni, avevo puntato tutto sulla musica e non avevo tirato su niente”, mi dice oggi nel suo studio immerso nella campagna aretina dove si è trasferito a vivere con la compagna, “eravamo in tour con i Ritmo Tribale ma gli avevo detto sarebbe stato l’ultimo per me. Volevo prendermi un anno sabbatico per dedicarmi solo all’eroina, purtroppo sono diventati sei. Poi, finiti i soldi, sono entrato in comunità, un anno, e poi ancora dieci anni a costruire ponteggi”.

    
Come nella migliore tradizione della caduta agli inferi e il conseguente riscatto, è proprio nella comunità di recupero che questo giovane signorino incontra un educatore e musicista – Walter Somà – che lo sprona a raccontare il suo inferno interiore. Con una sola chitarra acustica, senza trucchetti né effetti, nel 2009 esce il disco d’esordio “Semper biot” (“sempre nudo” in dialetto milanese), che raccoglie una dozzina di ballate sghembe dedicate al folto popolo che abita il suo mondo: i perdenti, i freak, i disadattati e i fuori di testa. Il disco è candidato al Premio Tenco come “miglior esordio dell’anno”, e in “Milano” canta “sapessi com’è strano, essere tossicodipendente di Milano. Bucarsi tra la gente che ti guarda e dice: ’sto deficiente è di Milano”. Vita vissuta, raccontata in modo vero, sincero, ma con ritornelli scanzonati che disorientano ancora di più per la loro crudezza. Poesia punk, in una parola

   
Se fossimo in America Edda sarebbe il perfetto antieroe che si rialza dopo una caduta estrema, e sarebbe diventato “famoso”. Ma siamo in Italia, e Edda al palcoscenico ha preferito una ditta di ponteggi, per anni, e poi addirittura la patente per guidare camion, pullman e cisterne con materiali pericolosi. Giusto per avere un piano B, ma in pochi si accorgono di questo riscatto. Nel frattempo, aiutato da amici musicisti, ha continuato a incidere, e, seppur con i numeri esigui del rock indipendente e la scarsa esposizione sui media, a incassare premi e stima da colleghi ben più blasonati come Manuel Agnelli, Vinicio Capossela e persino Biagio Antonacci. È adorato dai suoi fan e gli hanno dedicato persino un bel libro, sulla sua parabola artistica con e senza i Ritmo Tribale (Elisa Russo, “Uomini”, Odoya 2014). Ma Edda, nonostante sia rinato – in qualche modo reincarnato – sembra ancora inseguire un miraggio irraggiungibile che lo tormenta interiormente e che è sempre sul punto di afferrare, senza riuscirci.

  
Seguire i suoi discorsi non è facile: non sai mai quando è serio e quando cazzeggia, ti trasmette sentimenti di profonda umanità e subito dopo butta tutto in farsa, mescolando in un tritacarne linguistico citazioni dalla BhagavadGita – il testo sacro induista – e le rime di Bello Figo, gli Area di Demetrio Stratos e i tormentoni pop di Elodie. Gli chiedo che musica ascolta in questo periodo e, chiodo fisso, mi parla ancora della bella cantante romana (che, curiosamente, ha inciso un brano chiamato “Tribale”). In sottofondo l’iPhone appoggiato al leggìo trasmette una litania sacra induista su YouTube. “Ma prima ho visto un video di Elodie, per vedere se ha più pancia di me”, spara lui con una smorfia, e rovina tutta la poesia. Penso sia l’ennesima provocazione ma lo trovo preparatissimo a ripetere il ritornello di “Shakerando”, il tormentone di Rhove, il rapper col borsello che viene della provincia milanese ma che ha fatto ballare migliaia di ragazzini in piazza Duomo. “Il testo di Madame di ‘Sciccherie’ è futurismo puro”, dice Edda, spiazzandomi, “i testi di ’sti ragazzi non hanno senso ma la musica in sé trasmette un’emozione… una forza così che neanche i Sex Pistols. Io ho pure visto i Clash da ragazzo, ma adesso c’è un nuovo linguaggio, una nuova musica. Sono dei piccoli geni, dagli tempo”. Sarà…

  
Stefano Rampoldi, nato a Milano nel 1963, è un musicista che ha fatto della provocazione la sua arma più affilata, sia nella musica che nei testi che scrive. Sul volto porta incisa la maschera malinconica di Chet Baker, di Totò, di Jeff Buckley (il giovane cantante americano dalla voce d’angelo annegato nel Mississippi in circostante misteriose). È stato uno dei primi a cantare in italiano quando tutti gli altri scimmiottavano il rock inglese, e ha una voce acuta e inimitabile che si trasforma in uno strumento musicale unico; oggi, da vero ribelle, si presenta sul palco in bermuda e maglietta da calcio e canta frasi nonsense che somigliano proprio a certe rime dei rapper che raccontano la periferia. 

   
La notizia di questo nuovo lavoro ha fatto piuttosto scalpore perché il disco – il sesto intestato a suo nome – è prodotto da Gianni Maroccolo, il produttore e bassista originario dei Litfiba, capostipiti del rock italiano della fine degli anni 80, in seguito entrato a far parte dei CCCP di Ferretti e Zamboni, poi divenuti CSI, e grande manipolatore di suoni. Edda smonta il mio entusiasmo con le sue solite battutacce: “Gianni è un genio. Lo conoscevo di fama, lui me di sfama… Durante il lockdown mi ha proposto di cantare su una sua musica per il progetto ‘Alone’, ma io non sono capace. Mi ha obbligato la mia fidanzata, che ha risposto fingendosi me”. 

  
La prima collaborazione tra Edda e Maroccolo aveva preso forma nel disco sperimentale “Noio; Volevam Suonar.”, che mostra in copertina un fotomontaggio dei due al posto di Totò e Peppino in piazza Duomo. Ma il produttore voleva anche ascoltare i provini di Edda da solista, registrati in casa con l’iPad, richiesta che ha gettato nel panico il signorino seduto davanti a me: “Lui stavolta mi voleva come chitarrista. Cosa che per me è diventata un incubo. La settimana che abbiamo registrato il disco non vedevo l’ora di andarmene. Ho fatto schifo…”. In studio siamo un piccolo pubblico – io, una maga e la sua compagna – piegati in due dalle risate, ma lui si incupisce ancor di più e racconta l’angoscia di far avanti e indietro tra Milano e Garlasco, dove c’è lo studio di incisione di Ron, e di dover contemporaneamente badare al padre 93enne da far vaccinare. “Andavamo in giro con le dichiarazioni ‘mi sto muovendo perché devo andare a morire’…”, ridacchia amaro Edda, “quando Draghi ha detto chi non si vaccina muore io ho detto ‘minchia, lo dici adesso’. Poi Gianni non l’ho sentito per mesi. Pensavo di aver fallito”. E invece…

  

   
“Morire per non soffrire”, come canta lui, è il suo cavallo di battaglia da quando lo conosco: il tormento che ha vissuto in questa vita – e nelle precedenti, a sentire lui – è così grande che vorrebbe non reincarnarsi più
. Glielo si legge negli occhi di ghiaccio, nelle rughe del suo volto, nelle smorfie che fa. L’autoironia e la nevrosi quotidiana che mette in rima nelle canzoni sono il suo modo di proteggersi dal mondo che lo schiaccia, ma che lui ricambia con una poesia un po’ dadaista e un po’ punk. “Tu spuntami nel cuore, non ci vedremo mai più, non ti dirò di più. Tu sai perché si muore?”, canta in falsetto in “Lia”, una ballata dolcissima di “Illusion”. E ancora: “Ti sei sposata con un uomo vero (eh no!), ti amavo tanto ma stavi ad Alghero (eh no!)”, recita in “Carlo Magno”. La cosa che colpisce di più, ascoltando le canzoni nel crescendo finale dell’album è sì la qualità della scrittura di Edda, sempre più sicura e consapevole, ma soprattutto la ricchezza dei suoni che Maroccolo ha saputo cucirgli addosso. Nonostante il suo ipertrofico vittimismo, nelle mani di un mago del suono, Edda rinasce ancora una volta come un artista unico. “È visionario e profondo”, ha scritto Maroccolo in una nota, “ironico e amorevole, ma sempre e comunque mai assimilabile né omologabile a nessuno. Lui ha realizzato il disco che desiderava da tempo; io ho prodotto il disco che desideravo da una vita”. Edda è serio, stavolta, quando dice che è in credito con il produttore per il resto della vita. E anche delle altre a venire. Questo disco, nato in circostanze a dir poco rocambolesche, potrebbe essere il suo più personale, quello che cattura la sua vera essenza di poeta punk. “Pensa che ’sti provini li ho registrati in casa, sul tavolo di cristallo, con mio padre nell’altra stanza che guardava la tv a volume 100 perché è sordo, e con i vicini che non dovevano sentire…”, aggiunge lui. È curioso che, a pensare al panorama musicale italiano, Edda sia più vicino ai giovani rapper che alle rockstar nostrane. Ma Edda è unico e inimitabile, e assomiglia solo a se stesso. Nonostante il suo “Essere” dannato lo trascini sempre in una zona d’ombra di sofferenza e dolore. La maga gli propone di consultare l’oracolo e lui accetta con poca convinzione. Pesca cinque carte, con la strafottenza di chi sa che nulla potrà scalfirlo, ma rimane colpito dal disegno inequivocabile che gli si pone davanti agli occhi: “Queste carte parlano di te come essere. Tu hai tutto. Non c’è nulla che ti manchi, e il cammino che stai percorrendo ti mette nelle condizioni di trovare l’equilibrio, se rimani in fede e nell’ascolto di chi ti ama”, gli dice la maga. Lui ridacchia, perché, sotto sotto, sa che oggi ha davvero tutto quello che gli serve. 

   
Prima di lasciarci ascoltiamo l’ultima canzone del disco, “Brown”, che ha un ritornello straordinariamente pop e lui sorride ancora: “L’ho preso in prestito da Marracash, hai presente il suo badabum cha cha?”.

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