
(foto di Gareth Cattermole/Getty Images)
spremitori britpop
Con questo tour, gli Oasis diventano agenti del sistema contro cui lanciavano anatemi
C’è un passato che ritorna sempre, ma lo sa fare con stile, tatto, convinzione, sincerità. I Gallagher, invece, stanno spremendo oltre il lecito questa religione stanca e nel farlo diventano agenti di ciò contro cui da ragazzini si incacchiavano parecchio
C’è chi obietta che è sempre stato così, insomma che siamo di fronte a una mitizzazione della mitizzazione: i concerti e i tour delle grandi rock band degli anni buoni cos’altro erano, con qualche trascurabile eccezione, se non delle prevedibili messe cantate, a cui si aderiva già psicologicamente disponibilissimi al trasporto e alla commozione? E allora di cosa stupirsi, in anni ben più aridi e cinici, di fronte all’allestimento di uno show programmaticamente architettato per “rifare” e agevolare i desideri di presenzialismo, partecipazione e degustazione di un esercito di nostalgici e ritardatari? Adesso il mondo di chi proprio non ha niente di meglio da fare si divide in due: quelli per i quali la notizia della reunion degli Oasis era un sogno e l’unico obiettivo è diventato mettere le mani su un tagliando per esserci, in qualsiasi angolo d’Europa sia prevista la cerimonia, e quelli che anche no grazie, il sapore di sciacallaggio delle passioni e della malinconia è decisamente insopportabile. Del resto l’evento dell’estate è questo e il martellamento dei social impegnati a mostrarci vip d’ogni ordine e grado, con gli occhi a cuore nei posti da mille euro delle serate dei fratelli Gallagher, sono là a dimostrarlo: cosa ci stai a fare su Instagram se prima o poi non sganci le tue trenta righe grondanti di emozione per spiegarci cosa sia significato per te, che neanche riesci a trovare le parole, aver passato la notte nello sterminato senato degli Oasis, come avrebbe detto Achille Lauro. Mal ce ne incolga a noi che pensiamo che questo tour dai numeri giganti sia il più infingardo e brutale dei gesti di sfruttamento di una mistica ormai in ampio stato di disfacimento, circondata da una fama che oggi è perlomeno usurpata (e che anche in assoluto richiederebbe attente revisioni).
Per carità, poi ognuno è libero di fare ciò che vuole e di spendere a proprio piacimento i soldi, ma non vi provocano un certo fastidio quelle carnagioni incartapecorite, quei lineamenti anziani che non collimano con gli slogan di rabbia giovane che vengono mugolati, non vi viene da pensare che ogni cosa a suo tempo, sennò imitazioni e repliche renderanno tutto fatuo e assurdo? Certo, poi ci sono i Rolling Stones, o almeno quelli di loro che sopravvivono e periodicamente ripartono e ripetono. E’ il rock’n’roll circus, ti spiegano loro, non puoi farci niente, se ci hai lavorato per una vita, mica puoi smettere, anche se da un pezzo dovresti godere della pensione. Ma almeno quelli sono vecchi compari, un vetusto branco di sopravvissuti di ere lontane, non fratelli coltelli che un perfido management ha trovato il modo di far convivere per qualche mese, dopo che per anni si sono spalati fango addosso, con un attitudine, quella sì, piuttosto rock.
In sostanza, è solo una giaculatoria questa, con tutto lo sconcerto davanti ai 23 pezzi 23 della scaletta degli Oasis, suonati sempre identici, nemmeno fossero gli ultimi ripetenti, davanti alle solite folle oceaniche e adoranti? Il fatto che la rappresentazione sia un ripescaggio sgangherato di quella che fu una storia seducente, per le grandi canzoni che i fratelli partorivano, ma soprattutto per l’atmosfera di sfacciata, contagiosa coatteria che si portavano dietro, non vi fa venire i nervi? E con gli Oasis condanniamo tutto il cucuzzaro degli stagionatissimi replicanti di se stessi che nei fitti calendari estivi riempiono stadi e arene riproponendo quello che fecero una volta, rattoppato per come gli riesce di farlo adesso? Per carità, no. Non vogliamo arrivare a questo e sempre sia rivolto amorevole rispetto ai veterani, alle loro pance prominenti, alle muscolature ceramizzate, alla tigna di tener duro, perché l’alternativa è il giardinaggio o, peggio, la famiglia, semmai ne hanno una. Ci sono artisti che sono stati grandi, che sono ancora dignitosissimi, e vanno avanti a oltranza in quella specie di personale delirio infinito, spesso anche bellissimo. Pensiamo all’ottuagenario vagabondo Bob Dylan, a quello squinternato bilioso di Morrissey, che quando comincia a gorgheggiare freestyle ancora commuove, perfino a Springsteen, che non c’è concerto che non inciampa su qualche cavo sul palco, ma si rialza e riparte senza cenni di resa, perché è costruito nella ghisa. C’è un passato che ritorna sempre, ma lo sa fare con stile, tatto, convinzione, sincerità. Altri, e ci mettiamo i Gallagher, stanno spremendo oltre il lecito questa religione stanca e nel farlo diventano agenti di ciò contro cui da ragazzini si incacchiavano parecchio e pronunciavano anatemi. Ma i finali di partita, lo insegna anche la letteratura, spesso sono tirati in lungo, un po’ strazianti. Intanto il carrozzone degli Oasis gira l’Europa e dopo sbarcherà in America. Per adesso l’Italia non è stata graziata con l’assegnazione di qualche concerto nei nostri stadi. Ma i fan non devono disperare: probabile che in qualche momento del 2026 arriveranno dalle nostre parti. A raccattare gli ultimi spiccioli dell’avventura.