
Foto ANSA
sul palco
Al via il Rossini Opera Festival. Delirio per le voci di “Zelmira”, ma molti boh che diventano buh per la regia
A parte qualche bella idea, Calixto Bieito apre piste che non portano da nessuna parte e mostra senza spiegare, realizzando una regia-quiz che rende ancora più confusa un’opera già intricata di suo
Rossini Opera Festival numero 46, partenza con Zelmira, 1822, ultima opera scritta dal Gioachino per Napoli prima di partire per il matrimonio con Isabella Colbran e poi per Vienna. Rossini appartiene alla categoria poco affollata dei geni che sono anche furbi: congedandosi dalle amate sponde partenopee, rinunciò alle sperimentazioni drammaturgiche e musicali di Ermione o Maometto II (o del titolo immediatamente precedente, la semiseria Matilde di Shabran), scrivendo un’opera imponente, raffinatissima e ipervirtuosistica, ma più convenzionale, che infatti piacque moltissimo. Il vero problema di Zelmira, e la ragione per la quale la si vede così poco, non è soltanto che bisogna trovare qualcuno in grado di cantarla, ma il libretto confuso. La colpa non è del solito abate Tottola, bensì della fonte, una sconclusionata tragedia francese di Dormont de Belloy che sembra il Fidelio al Club Méditerranée (l’isola di Lesbo, per la precisione).
Lo spettacolo si svolge all’Auditorium Scavolini, in effetti un palazzetto dello sport, perché la civilissima Pesaro di sinistra in mezzo secolo non è stata capace di dotare il più importante festival musicale italiano di un teatro decente, come si è fatto, per esempio, ad Aix, Salisburgo, Glyndebourne e insomma nel resto del mondo. Qui Calixto Bieito ha una bella idea. L’orchestra è al centro del fu campo di basket, in mezzo a una bellissima struttura astratta sulla quale evolvono i cantanti; il pubblico sulle gradinate, con visione a 360 gradi e immersiva senza trucchi hi-tech. Peccato che i pregi dello spettacolo finiscano lì. Bieito è o è stato un grande regista, e si vede dalla recitazione che ottiene. Ma, moltiplicando le citazioni di non si capisce bene cosa, aprendo piste che non portano da nessuna parte e mostrando senza spiegare realizza una regia-quiz che rende ancora più confusa un’opera già intricata di suo. E naturalmente i molti boh producono alla fine moltissimi buh. Notevole invece la parte musicale, regolata sul podio da Giacomo Sagripanti senza troppe sottigliezze ma con energizzante autorità.
Giganteggia Anastasia Bartoli, Zelmira, con le consuete secchiate di carisma, voce debordante e travolgenti agilità di forza. Al suo livello Enea Scala, il perfido Antenore che, andando su e giù per due ottave abbondanti, dà un meraviglioso saggio di isterismo baritenorile. In mezzo alle due belve, Lawrence Brownlee, Ilo, sembra un po’ il vaso di coccio, ma regola con grandissima classe le follie iper-super-ultra virtuosistiche della sua cavatina. Per Marina Viotti, Emma, viene inserita nella partitura di Napoli l’aria scritta per la Eckerlin a Vienna, per la semplice ma buona ragione che è stupenda: peccato che l’esecutrice non sia una rossiniana doc. Buoni i due bassi, Marko Mimica e Gianluca Margheri, l’Orchestra del Comunale di Bologna e il Coro del Ventidio Basso di Ascoli. Delirio per i virtuosi, urla per il regista: l’esito è questo. Più preoccupante, per il Rof, la sala mezza vuota alla prima di parata: pazienza per gli ombrelloni, ma a Pesaro almeno Rossini dovrebbe riempire.