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L'intervista
Liraz Charhi ci racconta il suo un ponte musicale da Israele all'Iran
È nata e cresciuta nello stato ebraico, ma nel suo cuore battono musica e parole persiane. “Oggi vengo boicottata nei festival perché sono israeliana. E’ uno dei paradossi dell’Europa: quello di chiudere le porte agli artisti che invece, per natura, cercano di spalancarle”. Colloquio con la cantante e attrice
“La musica ha la capacità di superare confini e ideologie. Questo è ciò che mi spinge a continuare a lavorare in ciò in cui credo, nonostante tutte le difficoltà di questo momento storico”. Sono queste le parole al Foglio di Liraz Charhi, nata e cresciuta in Israele. Eppure, nel suo cuore, battono musica e parole persiane, come le origini della sua famiglia, scappata da Teheran nel 1964, prima della Rivoluzione, quando “era già chiaro che per le minoranze ebraiche, come la nostra, non ci fosse spazio”. Da qui la scelta dei genitori di emigrare in Israele, dove Liraz comincia una straordinaria carriera sia come cantante sia come attrice, oggi nella celebre serie televisiva “Teheran”.
Presto atterra ad Hollywood dove, parallelamente alla carriera cinematografica, inizia a frequentare Teherangeles: i quartieri dove, dopo la Rivoluzione, trovano rifugio migliaia di persiani scappati dal Regime. A distanza di quasi 50 anni, oggi sono oltre un milione e non hanno mai abbandonato le proprie radici persiane, che emergono tra ristoranti, negozi d’artigianato, librerie e attraverso la scena musicale underground di Los Angeles. E’ in questo contesto che Liraz riscopre le proprie origini e il desiderio di esplorarle attraverso la sua passione per la musica psichedelica persiana. Inaspettatamente, il suo successo travalica i confini di L.A. fino a raggiungere la tanto amata Teheran in cui, essendo cittadina israeliana, non ha mai potuto mettere piede. Se non fosse che, grazie anche ai social, diverse musiciste iraniane iniziano a contattarla esprimendo il desiderio di poter collaborare con lei, per poter esprimere il proprio bisogno di libertà, attraverso i testi che cominciano a scrivere assieme. Non potendo incontrarsi a Teheran né a Tel Aviv, lo fanno nei più importanti festival europei, dove Liraz ha accompagnato musicisti del calibro di Sting e la sua voce, assieme a quella di altre artiste iraniane, diventa un ponte non solo tra i due paesi nemici, ma anche tra la cultura occidentale ed orientale: “In Europa mi accorgo che spesso, nonostante il desiderio di conoscere e di comprendere il medio oriente, in molti lo fanno con non pochi pregiudizi, senza rendersi conto della complessità dell’area geografica e politica in cui ci troviamo, e senza percepire la nostra necessità di cambiamento e di libertà”.
Discutiamo anche della recente “Guerra dei 12 Giorni” e le chiediamo come abbiano vissuto quei momenti le artiste iraniane con cui collabora. Ci racconta che non hanno fatto che scriversi ogni giorno per darsi forza l’una con l’altra: “Non è stato facile, soprattutto sapendo che mentre io a Tel Aviv, pur con mille difficoltà, avevo un bunker in cui poter rifugiarmi, a Teheran non esistono rifugi per i civili perché il regime, da sempre, trascura i bisogni del popolo. Così come io sono libera di viaggiare o di ‘scappare’ dalla guerra, mentre loro non possono lasciare il paese senza un visto, quasi impossibile da ottenere. Eppure – continua – non abbiamo mai smesso di parlarci. Molte di loro mi hanno telefonato già alle prime ore di quell’interminabile sabato: il 7 ottobre. E’ da allora che ogni volta che vengo invitata all’estero partecipo a tutte le manifestazioni a sostegno degli ostaggi e osservo sempre come, immancabilmente, accanto alle bandiere israeliane sventolano anche quelle persiane. Come, del resto, accade in Iran. Perché i nostri due popoli sono storicamente legati e ci sosteniamo a vicenda nei momenti più bui, come questi”.
Più che di un regime change Liraz parla di un climate change: “La strada è ancora lunga. Perché mentre in Israele ci si può permettere di manifestare lungo la via Kaplan e, nella peggiore delle ipotesi, venire colpiti dagli idranti, a Teheran i Guardiani della rivoluzione non fanno sconti a nessuno, e opporsi al regime può voler dire rischiare la propria vita e venire impiccati in piazza. Purtroppo, l’occidente ha troppo spesso perso una visione globale delle dinamiche del medio oriente. Oggi vengo boicottata nei festival perché sono israeliana, così come molti artisti russi e ucraini. E’ uno dei paradossi dell’Europa: quello di chiudere le porte agli artisti che invece, per natura, cercano di spalancarle. Perciò credo che, mai come ora, il nostro contributo sia cruciale per superare le barriere ideologiche sollevate dai politici, che spesso giocano sulla pelle della società civile. E per questo, oggi, il nostro scopo è proprio quello di far sentire la loro voce”.