
Getty
Magazine
Cronache dal Festival di Marvão in Portogallo
Così quello che all’inizio era soltanto una Hausmusik allargata è diventato un vero festival che oggi è un appuntamento internazionale. Un racconto
Ascoltare La trota (inteso come il quintetto di Schubert) nel cortile di un castello arabo in mezzo a un suggestivo nulla al confine fra Portogallo e Spagna? Fatto. Per la serie: festival musicali dove non te li aspetti, benvenuti a Marvão, 99 abitanti d’inverno, un po’ più d’estate perché arrivano quelli con le seconde case, a due ore e mezzo abbondanti di macchina da Lisbona, su uno sperone roccioso dal quale vien voglia di recitare l’Infinito perché in effetti da quell’ermo colle lo sguardo spazia per interminate decine di chilometri, e senza siepe che blocchi la vista. Dunque, l’Alentejo da una parte, l’Estremadura dall’altra, e nemmeno tanto sitibondi come vorrebbe il luogo comune, anzi visti da quassù anche abbastanza verdeggianti. Il villaggio di casette bianche è tutto chiuso dentro le mura, tipo borgo umbro o toscano per vacanze radical chic. Ma con due radicali, appunto, differenze: di turisti ne circolano pochissimi, e il silenzio generale è così denso che pare di ascoltarlo. E qui forse è arrivato il momento di fare una riflessione: immersi come siamo nel frastuono generalizzato della nostra rumorosissima contemporaneità, per tornare ad apprezzare davvero la musica abbiamo soprattutto bisogno, paradossalmente, di silenzio. E qui davvero il silenzio non manca.
Marvão, 99 abitanti d’inverno, un po’ più d’estate, su uno sperone tra l’Alentejo e l’Estremadura dal quale vien voglia di recitare “L’infinito”
La storia del Festival Internacional de Música de Marvão, questo il nome completo, inizia nel 2014, quando sul posto arrivano, in bicicletta, marito e moglie musicisti di Monaco: lui, Christoph Poppen, celebre violinista e direttore; lei, Juliane Banse, non meno celebre soprano. Si innamorano, come tutti, di questo posto sospeso nello spazio e nel tempo. Anzi, a un certo punto della visita, lui sparisce; quando ricompare dopo qualche ora, annuncia a lei di aver comprato casa. Il festival nasce così, da questo colpo di fulmine. I coniugi iniziano a invitare amici, colleghi, allievi, la manifestazione dapprima pionieristica si struttura, arriva qualche sponsor, e un’équipe internazionale, con un efficientissimo direttore esecutivo portoghese e un’addetta stampa francese che sembra Inès de la Fressange con più allure, incredibile ma vero. Così quello che all’inizio era soltanto una Hausmusik allargata è diventato un vero festival, anche con un suo pubblico di affezionati o, come diceva Vittorio Emanuele III, di “revenants”, nel senso che tornano ogni anno. Quella appena finita è stata l’undicesima edizione, nove densissimi giorni di concerti, di regola almeno due al giorno che diventano anche quattro nei fine settimana, insomma un’abbuffata di musica, perfino troppa perché se fai quattro concerti in un giorno non possono durare ognuno due ore: ma molti degli esecutori sono giovani e musicalmente bulimici. Un auditorium non c’è, ovviamente. I concerti più importanti si tengono nel cortile del castello, un edificio arabo risalente al XII secolo e dalla storia importante, piazzato com’è a guardia di una frontiera storicamente turbolenta. L’acustica è abbastanza buona, anche perché lo spazio non è enorme, ci stanno circa cinquecento persone. Capita però che, quando tira vento, faccia freschino se non addirittura freddino per non dire che si gela, e i volontari distribuiscano allora i plaid in pile griffati dallo sponsor, come all’Archêveché di Aix-en-Provence quando il mistral rugge dalla valle del Rodano.
Il Festival Internacional de Música inizia nel 2014 per opera di Christoph Poppen, violinista e direttore, e Juliane Banse, soprano
Altrimenti, si usano le chiese, che sono deliziose benché non acusticamente impeccabili, costruite in un barocco povero e rustico, da campagna, ma suggestivo, pieno di Madonne trafitte e Cristi grandguignoleschi per le processioni della Settimana santa. Ma in cartellone ci sono anche i concerti nella cisterna del castello, sotterranea, enorme, spoglia e bellissima, o quelli al sorgere del sole: in programma, ovviamente, il quartetto opera 76 numero 4 di Haydn, detto appunto “Sonnenaufgang”. Pubblico molto misto: qualche locale, molti cittadini del mondo che hanno scoperto quest’angolo ancora incontaminato e tornano un’estate dopo l’altra. A occhio, prevalenza di tedeschi e di francesi, molti ormai habitué anche con agnizioni e abbracci al cocktail d’apertura, dove si apprezzava moltissimo la rapidità per nulla italiana dei saluti delle autorità locali, almeno finché non ha preso la parola il sottosegretario alla Cultura o equipollente, e ne è seguita una smisurata filippica. Per fortuna, il vino locale è eccellente (e comunque, per inciso, il Festival è pochissimo noto in Italia – con la spaginata che tenete in mano si tenta appunto di rimediare – ma molto in Portogallo. L’edizione passata ci è venuto anche il presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo De Sousa, che sul programma di questa scrive un saluto delizioso e spiritoso, annunciando di averci invitato il corpo diplomatico. Nota per i politici italiani: imparare).
Haydn all’alba. L’Officium Ensemble ha proposto musiche inedite del XVI e XVII secolo, poi la Messa in sol maggiore di Schubert
Dopo che l’anno scorso si era arrischiata perfino l’opera, Die Entführung aus dem Serail di Mozart, pare spettacolare fra le vecchie pietre arabe, quindi insomma anche filologica, in questo era in cartellone solo musica da camera, organizzata per lo più in smisurati programmi monografici. In due giorni e mezzo, ho sentito sette concerti, e non posso dettagliarli tutti. Il livello, comunque, mi è parso molto alto, perché la qualità media degli strumentisti, specie di quelli giovani che qui sono la maggioranza, non è mai stata così alta, con buona pace di chi rimpiange Caffariello. Poi resta da vedere se nelle nuove generazioni all’irreprensibilità tecnica si accompagnino sempre consapevolezza e fantasia interpretative: personalmente, non ne sono del tutto sicuro. Ma almeno tre giovanotti ascoltati qui mi hanno assai impressionato. Uno è un violinista cinese, Kevin Zhu, di cui del resto si parla molto nell’ambiente. Purtroppo quando ha affrontato i Ventiquattro capricci di Paganini ero già ripartito per le amate sponde; io l’ho sentito regolare con tecnica impeccabile e anche una certa controllata impetuosità il Trio opera 50 di Cajkovskij e, soprattutto, la Sonata in sol minore di Debussy, un Debussy per nulla flou e umbratile come da cattiva tradizione, anzi molto netto e, come dire? scintillante. Gli altri sono due violoncellisti francesi, Aurélien Pascal (nel Quintetto opera 44 di Schubert e nel ricordato Trio di Cajkovskij) e Bruno Philippe, che mi ha addirittura entusiasmato con una travolgente lettura tutta impeti e furori (ma controllatissimi) della Sonata in re minore di Debussy: brava, per inciso, anche la pianista Connie Shih a non farsene travolgere. Gli ensemble sono o già in carriera, come l’ottimo quartetto Malion, oppure vengono formati per l’occasione, e allora si riconoscono dal fatto che i componenti si guardano molto di più. Per esempio, nel sestetto Souvenir de Florence di Cajkovskij al poker del Malion si sono aggiunti due assi come il violista Nicolas Garrigues e, appunto, Pascal: bellissima interpretazione, insieme irruente e raffinata, che però non mi ha fatto dimenticare quella, davvero incredibile, ascoltata anni fa a “Trame sonore” a Mantova da un sestetto italo-russo di pazzi che prendevano dei rischi insensati, staccavano tempi folli, ampliavano la dinamica a dismisura e insomma esageravano in tutto, ma ne tornavano sempre vincitori, come Radamès. Altra caratteristica insolita, quindi interessante, dei programmi di Marvão è mischiare musica strumentale e vocale. In questo caso, con l’eccezione che poi si dirà, il livello mi pare meno alto. Segnalo però un giovane baritono spagnolo, Unai de la Rosa Hernández, che ha un senso acuto dello stile ed è davvero un interprete, sia in tedesco (Brahms, Schumann) sia e forse anche di più in francese (Ravel, che non è facile nemmeno vocalmente): metta un po’ più “in maschera” l’emissione che tende a tratti ad andare “indietro” e la carriera è sicura.
Poi ci sono stati dei concerti decisamente particolari. Come quello di un complesso polifonico portoghese, l’Officium Ensemble, che con il suo fondatore e direttore Pedro Teixeira ha proposto un programma di musiche inedite del XVI e XVII secolo dagli archivi della cattedrale di Évora. I compositori sono illustri sconosciuti con nomi come Estevão Lopes Morago, Duarte Lobo, Filipe da Magalhães, Manuel Cardoso o Estevão de Brito. Si poteva temere l’effetto-Valium, e invece è stata una mattinata stupenda. A Évora fra Cinque e Seicento si ascoltava della musica decisamente notevole, fra l’altro di compositori che conoscevano evidentemente a menadito quel che facevano i colleghi fiamminghi e gli italiani dall’altra parte dell’Europa: all’epoca ci si muoveva molto più di quanto sospettiamo noi posteri, e non è che la conoscenza sia nata con Internet. E poi loro sono bravissimi, voci calde, morbide, pastose, intonatissime e precisissime, nei soprani senza le fissità fischiettanti e trapananti della scuola anglosassone. Mesmerica anche la voce del direttore, che attacca le antifone dando le spalle al pubblico: all’inizio, pensavo che fosse qualcuno che cantava nascosto dietro l’altar maggiore. Lo stesso coro ha cantato il giorno dopo la Messa in sol maggiore di Schubert, con l’orchestra d’archi del Festival, cioè in pratica i solisti che ci suonano, diretta da Poppen, solisti Frau Banse e i due Prégardien, padre e figlio, Christoph e Julian. Messa “vera”, con la celebrazione eucaristica nella chiesa di Nostra Signora da Estrela, purtroppo in portoghese e in formato Vaticano II, su quella che don Camillo chiamava “la tavola calda”. Il latino e il rito tridentino sarebbero stati assai più appropriati. In ogni caso, questa Messa “piccola” di Schubert è una delizia Biedermeier, che evoca pievi barocchette nel Wienerwald per gite fuori porta con picnic annaffiato di Grüner Veltliner. Ma stranamente toccante anche per i più cinici miscredenti è stato vedere i musicisti, o almeno alcuni, che recitavano le preghiere ognuno nella sua lingua o si comunicavano. Sappiamo bene che la musica come linguaggio “universale” che abbatte ogni barriera linguistica e culturale, che affratella e accomuna è un’utopia pochissimo realistica, ma ogni tanto fa bene crederci (anche se poi, a ben pensarci, la musica è la più “nazionale”, e talvolta nazionalistica, di tutte le arti), beninteso purché non sia una scusa per sdoganare i gerarchi di Putin e relativa fetida propaganda.
La serata “Pai e Filho”: i tenori Christoph e Julian Prégardien, 69 e 41 anni. Un duetto di Mendelssohn, “Feldeinsamkeit” di Brahms
Altra serata molto curiosa quella di domenica scorsa. Titolo: “Pai e Filho”. Il padre e il figlio in questione sono i tedeschi Christoph e Julian Prégardien, rispettivamente 69 e 41 anni e tenori entrambi, beninteso non tenori da opera italiana, o non solo, ma celebri liederisti, evangelisti nelle Passioni bachiane, e mozartiani acclamati, anche se per il nostro gusto non abbastanza “italiani” (in fin dei conti, delle sette grandi opere di Mozart, cinque sono in italiano e tutte richiedono una tecnica belcantistica, cioè italiana). Per la verità, nella Messa di Schubert Prégardien senior aveva cantato la parte del baritono, e apparentemente senza problemi: Plácido Domingo, per dire, che ha fatto il percorso analogo, invece ne ha, e parecchi. La sera seguente, era di nuovo tenore. Sentire una Liederabend cantata da due tenori e per di più padre e figlio è un’esperienza alquanto insolita: a me non era mai capitato. Alcuni dei brani eseguiti sono effettivamente dei duetti, per esempio il celebre Auf Flügeln des Gesanges di Mendelssohn, che peraltro siamo abituati ad ascoltare da voci femminili; altri lo sono diventati in curiosi arrangiamenti, per esempio Auf dem Wasser zu singen di Schubert. Comunque, si sa, in musica non conta soltanto cosa si fa, ma come. E qui, accompagnato dal piano eccellente di Silke Avenhaus, il duetto che non t’aspetti si è rivelato molto piacevole. Il papà è chiaramente un po’ affaticato, ma regge ancora bene e rimane un ottimo interprete, che davvero sottolinea e “colora” ogni parola. Idem il figlio, che in più mostra un timbro singolarissimo e intrigante, chiarissimo ma lucente, quasi da tenore “angelico” protoromantico: il tipo di voce che immagini avessero un Giovanni Battista Rubini o un Matteo de Candia alias “Mario”, che però purtroppo Schubert non lo cantavano come il loro collega francese Adolphe Nourrit, il primo a far conoscere ai parigini i Lieder, benché ovviamente tradotti. In più, le due voci si fondono benissimo: stessa tecnica, stesso fraseggio, direi perfino stessa sensibilità musicale, che evidentemente si trasmette per via genetica, come gli occhi azzurri o il naso aquilino. Ne è nata una serata particolare ma bellissima, sorprendente: chi avrebbe mai immaginato di ascoltare Feldeinsamkeit di Brahms intonato insieme da padre e figlio in una chiesetta portoghese?