
musica
Alla faccia del “messaggio”, il rap si mormora anche. Tony Boy docet
Da linguaggio crudo e militante a flusso emotivo e scomposto: il mumble rap dissolve parole e contenuti, ma rilancia il rap come codice tribale, suono identitario e spazio creativo alternativo. L'esempio del 25enne rapper padovano
Sembra un lampante controsenso quello contenuto nella definizione di “mumble rap”, il rap mugugnato, quello del quale, per statuto, non si capiscono le parole, che vengono ad arte frantumate, sbocconcellate, polverizzate dall’interprete di turno, alla faccia del famoso “messaggio” – forte, esplicito e prepotente – venuto alla luce come fattore fondativo all’origine di questo suono. A meno che non si vogliano indagare dei significati ulteriori – una disillusione, una rinuncia, una smentita dell’intento iniziale – in questo slittamento dall’originale assertività sul genere del “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back” dei Public Enemy fino all’avvento di questa marmellata linguistica largamente manipolata con autotune, che smonta il linguaggio, rifiuta i contenuti, rappresenta una dissoluzione verbale e per certi versi una resa della funzione del rap, o forse meglio, una sua conversione. Non che si tratti di cosa nuova: di “rap mormorato” si comincia a parlare già una dozzina d’anni fa, allorché nelle liriche dei pezzi inizia a prendere il sopravvento più l’impatto onomatopeico delle parole (digitalmente esaltato) che il valore del discorso: oltreoceano Wiz Khalifa e Future costruiscono una fortuna su questo stile, sebbene la critica da subito non sia tenera con quello che giudicano un filone banalmente derivativo, accusato d’essere a corto di idee, asservito alle forme e contraddistinto da una superficialità sloganistica. In fondo, come in un mantra singhiozzante, bastava ripetere all’infinito certe parole ad alto richiamo, per lo più di area sessuale – una per tutte: bitch e qualcuno si ricorderà della meteora XXXTentacion passato anzitempo a miglior vita, che ne era letteralmente ossessionato – e tanti saluti all’arte della rima. E però il fenomeno ha trovato la forza di svilupparsi e già da qualche anno questa modalità espressiva ha fatto presa anche da noi, in fondo sembrando fatta apposta per diventare la lingua d’elezione della schiera di rapper/trapper figli delle banlieue nostrane, nella maggior parte dei casi italiani di seconda generazione, con radici magrebine. Il loro diventava un italiano sintetico, sincretico, spremuto all’osso dei termini necessari all’estetica che gli interpreti di questo stile sentivano propria. Segnali di fumo tribali, vocaboli di riconoscimento, lo stretto necessario sprofondato in un magmatico guaire non verbale, figlio di un’estraneità sociale e di una latente ostilità.
Poi è venuto a galla un personaggio diverso e il discorso si è ampliato: si fa chiamare Tony Boy, vero nome Antonio Hueber, 25 anni, padovano con ascendenze familiari centroeuropee. Nel giro di pochi anni ha inondato il mercato sotterraneo delle sue produzioni, svariati mixtape e già tre album, l’ultimo dei quali, “Uforia” appena arrivato sul mercato, con dentro la bellezza di 20 brani. E’ puro mumble rap, venato di malinconie emo e scandito da tempi lenti, con diverse assonanze con uno dei precursori del genere in Italia, ovvero il romano ThaSup (che appare anche in una traccia), diversi feat, tra cui un paio di Glocky, altro nome di punta del genere in Italia e un’elaborazione complessiva che desta interesse: maturando la propria ricerca musicale Tony infatti riesce ora a stabilire una messinscena musicale suggestiva e originale. Il suono insegue spesso una spazialità orchestrale, il beat è quasi sempre rarefatto, sono i vocalizzi ad assumere il controllo delle operazioni, in una litania che si alterna con versetti tradizionali, quasi che la lingua parlata e quella immaginata si contendessero il centro della scena. L’andamento è ipnotico, composto da scene, più che da canzoni vere e proprie. E alla fine l’ascolto di “Uforia” aggiunge dei risvolti all’esplorazione del sentiero che la musica nata quarant’anni fa come rap sta ora percorrendo, nel tentativo di generare un nuovo campo espressivo, alternativo al mainstream e accessibile agli ultimi arrivati tra i creativi. Che a loro volta sembrano un universo autonomo, i cui membri si supportano a vicenda. Se siete curiosi di esplorarlo, un buon punto di partenza sono i vari social che se ne occupano, raggiungibili a esempio ercando corrispondenze alla sigla “ChopExtendo”. E’ un diverso piano dell’underground, italiano e internazionale. Che scoprirete animato da logiche interne e da regole inedite. E soprattutto dalla voglia di esistere come modalità espressiva condivisa.