una sera di maggio

Santa Cecilia in tournée. Consonanze europee con passeggiata ad Amburgo

Roberto Raja

L’orchestra dell'Accademia diretta da Daniel Harding fa tappa nella magnifica sala Elbphilharmonie. Una scommessa su un futuro comune, in una serata che ha allineato la musica di un compositore ebreo, il gesto di un direttore inglese per la gioia di un pubblico tedesco

Amburgo. Orchestra italiana, direttore inglese, pubblico tedesco, e il concerto che gira a meraviglia ti fa sentire l’integrazione europea come cosa fatta, facile e naturale. Almeno nello spirito. Sarà anche grazie alla forza della musica – è così da qualche secolo, del resto – ma è in particolare da una poltrona dell’Elbphilharmonie di Amburgo, una sera di maggio, che si riesce a cogliere in questa prospettiva una così evidente idea di Europa, e motivi così evidenti di esserne compiaciuti. 

 

               

Sul palco l’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, la più internazionale delle nostre orchestre: Amburgo era la seconda di cinque tappe che l’hanno portata da Barcellona a Katowice, in Polonia, e altre due tournée sono in programma da qui all’estate, mentre ad Amburgo – fa già sapere il ricco calendario sinfonico della Elbphilharmonie – tornerà tra meno di un anno, in marzo. Sul podio il direttore musicale dei ceciliani, Daniel Harding, e accanto a lui nella prima parte del concerto “l’amico americano”, il violino solista di Joshua Bell, quest’anno artista in residence a Roma. Il programma era incardinato sull’asse boemo Dvorak-Mahler, le cui storie personali, inseguendo le nostre suggestioni europeiste, voglion dire Vienna e Praga e Impero asburgico fin quasi al suo sfinimento, ma anche Inghilterra e Germania (all’Opera di Amburgo Mahler diresse parecchio, persino la prima tedesca dell’Evgenij Onegin di Ciajkovskij) per svoltare poi entrambe verso i nuovi orizzonti americani. 

                 

Ad Amburgo l’Orchestra di Santa Cecilia è quasi di casa: sette anni fa, pochi mesi dopo l’inaugurazione della Filarmonica dell’Elba, il primo concerto nella magnifica sala da oltre duemila posti, una composizione di terrazze a diversi gradi di altezza che abbracciano il palcoscenico da ogni lato. Il grandioso edificio che la contiene, piantato su un molo steso tra l’Elba e un canale, a guardarlo dalla foce del fiume sembra un bastimento in partenza da Gotham City: tutto fuorché un auditorium. Con le onde che in alto scandiscono il suo profilo, con le pareti della parte superiore a vetrate che riflettono i colori di piombo del cielo del nord, ha ridisegnato il panorama di HafenCity, un tempo la zona del porto più vicina al centro della città e il fulcro del suo sviluppo economico, oggi un quartiere frutto di un vasto piano di riqualificazione urbanistica e sociale.

 

Un quartiere con poca gente in giro, che pare ancora in cerca di un’identità ma che rivela, dalle auto sfornate dalle rampe dei garage – in apparenza solo Audi, Mercedes e Bmw – un benessere diffuso, che si accompagna gettando lo sguardo più in là al belvedere delle solite piste ciclabili, delle strade pulite, di treni e metro che corrono puntuali sulle sopraelevate. Amburgo è la prima città tedesca per reddito pro capite, e nell’impresa dell’Elbphilharmonie, i cui costi sono lievitati negli anni della costruzione fino a 789 milioni di euro, ci ha messo sì tanti soldi, e accese polemiche, ma anche l’anima e il cuore della città che ha visto nascere Mendelssohn e Brahms, che ha avuto come direttori musicali delle cattedrali della città Telemann e il più celebre dei figli di Bach e che nella sua storiografia musicale metterebbe pure gli esordi dei Beatles, che proprio qui nel 1960-61 cominciarono a farsi conoscere al mondo.

  

                

Deve essere stato questo pedigree, e più ancora un’intima consuetudine con la musica, l’adesione al rito quietamente borghese del concerto, l’aspettativa stessa per die Italiener, a far riempire la sala grande dell’Elbphilharmonie. E poi, sentita la lettura intensa e mai sopra le righe del Concerto per violino di Dvorak, a suscitare un applauso così caloroso per Joshua Bell e a farlo quasi deflagrare dopo il virtuosistico Ysaye del bis. La seconda parte del concerto segnava, come anticipato a Roma, l’inizio del viaggio di Harding e dell’Orchestra di Santa Cecilia nelle sinfonie di Gustav Mahler. La Prima, dunque, che per quanto ancora incerta stilisticamente tra il poema sinfonico e la sinfonia (o forse proprio per questo) contiene in sé già tutti gli aspetti della poetica mahleriana. La lettura di Harding, che è trasparente e sorvegliata senza perdere calore espressivo, non addomestica però quegli elementi “estranei” che Mahler ha fatto entrare dopo aver aperto il recinto della sinfonia ormai troppo chiusa in sé stessa: una danza rustica, uno sberleffo dell’oboe o del clarinetto, una beffarda marcia funebre, un ruvido ritmo popolare o un’eco klezmer. E i ceciliani hanno dato il meglio di sé, nell’insieme e nei singoli: dal perentorio sbalzo dei fiati (prime parti tutte da applausi) al fascinoso colore degli archi su tutto lo spettro sonoro. Il pubblico ha risposto con pari entusiasmo.

 

Infine, un concerto è un concerto, che suonino gli italiani di Santa Cecilia ad Amburgo, i Berliner in Italia o i Wiener a Parigi. Ma ad Amburgo succede qualcosa di più. Basta una passeggiata di un quarto d’ora dalla Elbphilharmonie per arrivare al campanile annerito della chiesa di San Nicola, di quel che resta della chiesa, cancellata dal devastante bombardamento alleato che nel luglio 1943 trasformò buona parte della città in un mare di fiamme e uccise qualcosa come 45 mila civili. Da lì si riesce ad avere un’idea di quanta strada abbia fatto la Germania nell’elaborazione del lutto e della colpa, restando oltretutto ad Amburgo immune dai veleni di vecchi e nuovi risentimenti (nelle elezioni di marzo per la città stato anseatica l’estrema destra dell’AfD s’è fermata al 7,5 per cento, l’Spd s’è confermata primo partito). Quella strada, intrapresa per spirito di sopravvivenza, continuata qui più che altrove all’insegna dell’etica protestante e dello spirito del capitalismo, è stata fatta anche nel nome di una riconciliazione e di una convivenza possibile e desiderabile. Una scommessa su un futuro comune che in una serata che ha allineato la musica di un compositore ebreo, il gesto di un direttore inglese, la gioia di interpreti italiani e di un pubblico tedesco, sembra ampiamente cominciato.