Lhasa de Sela (David Lefranc/Gamma-Rapho via Getty Images) 

Lhasa de Sela, la figlia dei fiori

Francesca d'Aloja

Aveva una voce forte e dolce. La musica speciale nel solco di un’infanzia senza radici e del successo planetario

“I made a small, small song… I sang it all night, all through the wind and rain, and when the morning came, I had to start over again…” (Ho fatto una piccola, piccola canzone, l’ho cantata tutta la notte, tra il vento e la pioggia, e quando è arrivato il mattino ho dovuto ricominciare tutto da capo). 

  
Questa canzoncina, semplice e perfetta come una filastrocca, è giunta alle mie orecchie alcuni anni fa durante la svogliata visione di una serie americana intitolata I love Dick, nella cui colonna sonora era stata inserita. Della serie ricordo poco, tranne il fatto che fosse piuttosto divertente. La voce della cantante autrice del brano, invece, non l’ho più dimenticata. Il contrasto fra la leggerezza della composizione e l’intensità del timbro vocale suggeriva tesori che ben presto avrei scoperto. Small song era uno specchietto per le allodole.


Dietro quella piccola canzone infatti se ne nascondevano altre, grandissime. Dietro quella voce si nascondeva una ragazza fantastica, Lhasa de Sela, la cui storia, se fosse un film, sarebbe un avventuroso road movie. 

  

La chiamano Lhasa, come la città proibita. È la terza figlia della coppia, prima di lei sono arrivate Sky e Ayin, e presto si aggiungerà Miriam

   
Il viaggio comincia negli Stati Uniti nei primi anni ‘70 e il mezzo che percorre migliaia di chilometri non è una decappottabile ma un furgone giallo, un vecchio scuolabus trasformato in casa itinerante. Lo conduce Alejandro de Sela, hippy messicano, figlio della controcultura di quegli anni vagabondi e padre di quattro bellissime bambine dai nomi stravaganti: Sky, Ayin, Lhasa e Miriam, nate dall’amore con Alexandra, fotografa e arpista americana, cresciuta nella Upper East Side di Manhattan insieme a una madre attrice (fu la protagonista del film di Elia Kazan America America) e un padre avvocato, presto abbandonati per seguire il richiamo dei paradisi artificiali. Prima di conoscere Alejandro, Alexandra si barcamena in una vita di eccessi e di incontri sbagliati. Fugge in Messico per disintossicarsi dall’eroina, mette al mondo due bambine con un uomo violento, si vede sottrarre la custodia delle figlie che verranno affidate a sua madre, crolla, si riprende, crolla. Alejandro è un vagabondo dalla vita altrettanto difficile che cerca nella spiritualità una strada per la felicità: “Mio padre ha praticato tutte le religioni possibili” racconterà Lhasa “secondo lui cantare preghiere buddiste, sgranare un rosario e meditare in cima a una montagna era complementare, non contraddittorio”. È l’incontro di due anime perse, due creature apparentemente inidonee a metter su famiglia. E invece…

   
Lhasa nasce in una roulotte a due passi, neanche a farlo apposta, da Woodstock. Ad aiutarla a venire al mondo c’è un fricchettone in salopette, torso nudo e cappello di paglia. Si chiama Stephen Young ed è noto come il medico della comunità hippie. Per facilitare il parto l’improbabile ostetrico suggerisce alla futura mamma di trangugiare del vino rosso californiano, portato per l’occasione. Il 27 settembre 1972 viene alla luce una bambina senza nome, i genitori sono indecisi su quale scegliere. Passeranno cinque mesi prima di trovare quello giusto: la folgorazione si deve alla lettura del Libro tibetano dei morti (manuale di culto della coppia insieme a The psychedelic experience di Timothy Leary). La piccola si chiamerà Lhasa, come la città proibita. È la terza figlia della coppia, prima di lei sono arrivate Sky e Ayin, e presto si aggiungerà Miriam. Sin dalla loro nascita e durante tutta l’infanzia, Lhasa e le sorelle non si sono mai fermate. Fedeli a una concezione di vita bohèmienne, i genitori attraversano luoghi e territori senza mai piantare radici, adottando una decisa presa di distanza dalla società, soprattutto da quella yankee. Come la famiglia del film Captain Fantastic con Viggo Mortensen, i De Sela si rendono autosufficienti e impermeabili ai richiami della cultura di massa: le bambine non andranno a scuola, padre e madre provvederanno alla loro educazione impartendo lezioni di storia, geografia, filosofia, letteratura e musica, e sarà loro proibita la televisione. “Potevamo contare solo su noi stesse, e siccome non avevamo distrazioni dall’esterno, dovevamo inventarci i nostri passatempi, la nostra fantasia era continuamente stimolata”.

 

La creatività diventa per ciascun membro della famiglia una ragione di vita. Le ragazzine cantano, scrivono, dipingono, recitano poesie, ballano e leggono moltissimo, soprattutto raccolte di favole e leggende mitologiche. La sera si organizzano piccoli spettacoli, Lhasa si improvvisa cantastorie accompagnata dalle note dell’arpa suonata dalla madre. La mancanza di frequentazione con i coetanei cementa il rapporto fra le sorelle, il loro legame diventa indissolubile. Non lo è quello fra i genitori, che dopo quindici anni on the road, si separano. Lhasa ha tredici anni quando la madre molla tutto e se ne va con un altro uomo (con il quale avrà altri due figli!). Le ragazze continueranno a viaggiare insieme al padre, il quale, dovendo provvedere da solo al sostentamento della famiglia, accetta un incarico di insegnante di letteratura messicana a San Francisco ed è costretto a iscrivere le figlie in una scuola. È il primo vero impatto con la realtà e non sarà facile per le ragazze, abituate a disporre di una libertà totale, assoggettarsi alle regole sociali. Lhasa si consola scrivendo, dipingendo e soprattutto cantando. “Non la smetteva mai di fischiettare e canticchiare” ricordano le sorelle.

 

Il repertorio musicale le è stato trasmesso dal padre, a cui è legatissima. A lui deve l’ascolto di canzoni tradizionali messicane come La Llorona, interpretata dalla voce straziante di Chavela Vargas, in cui si narra la leggenda dello spettro di una donna che dopo aver ucciso i figli per vendetta si dispera vagando per l’eternità. Per le sorelle la scuola è l’occasione di una svolta che segnerà il loro destino: una compagna di classe, figlia del proprietario di un piccolo circo, le coinvolge nelle attività circensi, ed è così che impareranno i rudimenti delle loro future professioni: Sky diventerà trapezista e clown, Ayin funambola e Miriam acrobata. La vita nomade della loro infanzia ha trovato la sua quadratura. Lhasa non sembra interessata al circo, il futuro le riserva un altro genere di palcoscenico, ma lei non lo sa ancora. Lo capirà poco dopo, davanti allo schermo di una tv che trasmette un documentario su Billie Holiday: “E’ questo quello che voglio fare”. 

   
Sarà proprio con una canzone di Billie Holiday che Lhasa si esibirà per la prima volta davanti a un pubblico, a soli sedici anni, in un bar di San Francisco. Quattro anni dopo, a Montréal, rivelerà il suo talento nei locali della città, a quel tempo divenuta un polo d’attrazione per artisti e musicisti francofoni e anglofoni. Giunta in Quebec per far visita alle sorelle che a Montréal frequentano l’École Nationale du Cirque (dove è nato il Cirque du Soleil), Lhasa entra in contatto con alcuni musicisti che si riveleranno fondamentali: fra loro c’è Yves Desrosiers, compositore polistrumentista, che intuisce il potenziale della cantante: “Nella sua voce c’era forza e dolcezza, l’unione di questi due elementi produceva un effetto emozionante”. I due cominciano a provare spaziando attraverso i generi: jazz, bossa nova, folk, canción ranchera, e poi ancora il fado, il bolero, la musica gitana, la chanson francese fino a trovare la sonorità adatta a quella voce plasmata dai viaggi, dal multilinguismo, dai miti e dalle leggende, dai confini attraversati… una voce fuori dal tempo, che non assomiglia a nessun’altra. 

    

Malgrado venga ignorato dal pubblico statunitense, nel resto del mondo vende settecentomila copie, evento rarissimo per un primo disco 

    
Nasce così La Llorona, il primo album di Lhasa de Sela, e sarà una rivelazione. I nove brani, che raccontano la vita errante di Lhasa, sono cantati in spagnolo, scelta azzardata per un’artista di madrelingua inglese e in controtendenza con il mercato discografico che inaspettatamente lo accoglie ben oltre le migliori previsioni. Malgrado venga ignorato dal pubblico statunitense, nel resto del mondo vende settecentomila copie, evento rarissimo per un primo disco per giunta con etichetta indipendente. Il segreto del successo de La Llorona si nasconde proprio nella sua alterità e dimostra quanto siano fallaci le regole del commercio, quanto necessarie e auspicabili si dimostrino le alternative. Nessuno avrebbe potuto immaginare l’incanto prodotto da quella mescolanza di ritmi messicani anni ‘30 con timbri zigani dell’Est Europa accompagnati da testi che evocano un’America Latina reale e immaginaria. Nessuno ci avrebbe scommesso tranne forse chi aveva avuto la fortuna di ascoltarla dal vivo, Lhasa de Sela. 

    

     
Le cronache dei suoi concerti riferiscono invariabilmente di un pubblico ammaliato dal suo modo di cantare, appassionato e al tempo stesso interlocutorio. Sul palcoscenico Lhasa parla di sé instaurando, ogni volta, un dialogo con il suo pubblico. “Il mondo attorno a me cambia, e non riesco a stargli dietro. La sola cosa su cui posso contare è la mia storia, mon histoire à moi” aveva dichiarato in un’intervista, “mi piace la musica che scava in cerca di qualcosa, di un’emozione. Non amo la musica leggera. Sono di tendenza triste ma di natura allegra…”. Chi l’ha conosciuta conserva di lei il ricordo di una creatura speciale, una bambina magica, incredibilmente magnetica. L’ho ascoltata in alcune interviste filmate, mi ha colpito la totale assenza di malizia, la grazia dei suoi modi e la profondità delle riflessioni, mai banali, mai gratuite. Quando parla sembra oscillare sul margine di un’emozione, in bilico fra il pianto e la risata. È abitata da qualcosa di fatato e guardandola si ha il desiderio di conoscerla, di esserle amica. Franck Monnet, cantautore francese ora trapiantato in Nuova Zelanda, che con Lhasa ha inciso in duo un’incantevole canzone dal titolo Fiancés, mi ha raccontato che cantare insieme a lei provocava “una vertigine” e che nel suo approccio al lavoro erano preponderanti sincerità e integrità: “Non faceva mai nulla senza esserne pienamente convinta”. 

    

Il tema dell’esilio, della mancanza di radici è evocato con l’amarezza della maturità: “Trovarsi sospesi nel vuoto non sempre è sinonimo di libertà”

      
Che fosse una persona speciale lo si evince anche dall’imprevedibile reazione seguita al clamoroso successo del primo disco: sopraffatta dalla popolarità, Lhasa fugge in Francia, dove Sky, Ayin e Miriam hanno fondato un piccolo circo (le sorelle di Lhasa meriterebbero un racconto a parte…) e decide di seguirle nelle loro tournée accompagnando i numeri di acrobazia con la sua voce. La nostalgia dell’infanzia vagabonda si scontra con le pressioni della casa discografica che la vorrebbe di nuovo in sala d’incisione, ma lei non demorde e resta a Marsiglia (“la città ideale per chi non sa dove vuole vivere”). Ci rimarrà tre anni, poi tornerà a Montréal, pronta a rimettersi al lavoro, ma senza fretta, concedendo all’ispirazione il tempo necessario per esprimersi. Sei anni dopo La Llorona esce The living road, dodici tracce cantate in inglese, francese e spagnolo: “Cantare in tre lingue diverse non è altro che il riflesso di me stessa, delle mie tante vite. Sono cresciuta fuori dal tempo, senza televisione, elettricità, acqua corrente… amavo questa vita. Quando scrivo non parlo mai di cose transitorie, vado in cerca di ciò che è eterno, universale”. Il tema dell’esilio, della mancanza di radici è evocato con l’amarezza della maturità: “trovarsi sospesi nel vuoto non sempre è sinonimo di libertà”.

      

     

La romantica vita di bohème non è più idealizzata come un tempo, a trent’anni Lhasa sente il bisogno di fermarsi. Compra una grande casa a Montréal per sancire la scelta di quella città come prima, definitiva residenza, e la riempie di fotografie, gatti, ritratti di famiglia: il nonno libanese, la nonna attrice… Chi ha frequentato la sua casa la descrive come un’emanazione della sua padrona: un luogo caldo e accogliente e insieme segreto, inviolabile. Pur senza raggiungere il successo del primo disco, The living road viene accolto calorosamente, l’intervallo di sei anni non ha prodotto gli effetti nefasti temuti dalla casa discografica. Stampa e pubblico sono ancora con lei: il Times include il disco fra i dieci migliori del decennio mentre il Guardian definisce Lhasa de Sela “una diva planetaria”.

 

Sui palcoscenici europei selezionati per il tour promozionale, Lhasa incanta il pubblico con pezzi struggenti come Soon this place will be too small che sembra presagire la tragedia imminente: “Soon this place will be too small / all my veins and bones will be burned to dust / you can throw me into a black iron pot / and my dust will tell / what my flesh would not.” Nel 2006 Lhasa si accorge di avere un nodulo al seno, ma i medici che la visitano le dicono di stare tranquilla, non è nulla di grave. La diagnosi si rivelerà errata e quando se ne renderanno conto sarà troppo tardi. Il verdetto giunge con due anni di ritardo: il tumore è ormai a uno stadio avanzato, l’esito delle analisi le viene comunicato a ridosso di un concerto che la vede protagonista insieme a Leonard Cohen. La sua partecipazione viene annullata. Le restano due anni di vita che non le impediscono di incidere il suo terzo, bellissimo album, dal semplice titolo Lhasa, cantato interamente in inglese. Il primo gennaio, allo scoccare dell’anno 2010, Lhasa se ne va, a trentasette anni. A Montréal nevica, per quattro giorni la neve non cessa di cadere. Le ceneri di Lhasa saranno traslate in Francia dalla madre (my dust will tell what my flesh would not…), affinché Sky, Ayin e Miriam, che vivono in un luogo incantato della Borgogna (in un paese che, incredibilmente, si chiama Montréal…), possano accompagnare l’amata sorella nel suo ultimo viaggio. Il contenuto dell’urna viene rovesciato nelle acque di un ruscello ai margini di un bosco, le ceneri galleggiano per pochi istanti, poi scivolano via, seguendo la corrente.

  

     
La morte è sempre ingiusta, ma quando insieme alla persona spariscono i doni che avrebbe potuto offrirci, lo è ancora di più. Lhasa de Sela ci ha regalato tre dischi meravigliosi. Lo sarebbero stati anche quelli che non ha potuto incidere, e poco importa che non sia dimostrabile. La sua strada, la sua living road, era ancora tutta da percorrere.

  
(Se ancora non conoscete la sua musica, cominciate con Rising, basterà quel brano a catturarvi).