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tra musica e filosofia

Per la French Theory il Festival di Sanremo è una serie di torti concatenati

Massimo Adinolfi

Sul palco dell'Ariston va in scena una forza in grado di connettere e tenere insieme mondi apparentemente diversi ma in fondo omogenei, dalla politica allo spettacolo, fino al costume. Quella forza che, più di un libro, di un discorso in Parlamento o di una omelia domenicale, dà la sensazione di “arriver”. Di accadere, e arrivare a destinazione

La posta in gioco, secondo Jean-François Lyotard: “Confutare il pregiudizio per cui grazie a secoli di umanismo e scienze umane si crede che esistano ‘l’uomo’ e il ‘linguaggio’, e che il primo si serva del secondo piegandolo ai suoi scopi”. Oggi come oggi, lo so, la French Theory non è più sugli scudi e il rapporto di Lyotard sul sapere lo leggono in pochi (però, lo dico en passant, se devo scegliere fra Rosa Chemical e il postmoderno o Salvini e il ritorno all’ordine io non ho molti dubbi), e tuttavia qualche servigio lo renderebbe ancora, alla bisogna. 

 

Ieri, con tutte e ventotto le canzoni in gara, il nuovo disco dei Måneskin e lo champagne di Peppino di Capri, s’è finalmente cantato più di quanto si sia parlato, però da un lato prosegue ugualmente la scia lunga dei commenti sui monologhi – su Benigni e la Costituzione, su Ferragni e il sessismo, su Fagnani e la rieducazione nei carceri minorili, sull’attivista Pegah Moshir Pour e la repressione in Iran –; dall’altro lato c’è che, come Lyotard per l’appunto spiegava, un certo regime di discorso non è fatto solamente di parole. 

 

Ma soprattutto, dicevamo, non è così importante che le parole siano al servizio di chi le pronuncia. A Sanremo la cosa, per la verità, non si nota troppo, vista la festa dell’“io ci sono” che si celebra all’Ariston e la gran quantità di discorsi condotti in prima persona: vale per Fedez con le sue coraggiose assunzioni di responsabilità (neanche fosse dinanzi a una corte marziale) e vale per Angelo Duro con il suo pensoso turpiloquio (neanche fosse Checco Zalone), ma vale pure per le carriere degli highlander, per gli anni di Al Bano, che sono ottanta, e per quelli di Peppino Di Capri, che sono qualcuno in più.

Se uno, però, mette da parte la prosopopea dell’io, il più lurido di tutti i pronomi (Gadda), vede meglio dove sta il torto. Il torto – spiegava il filosofo francese – sta nel fatto che “le regole del genere di discorso secondo le quali si giudica non sono quelle del genere di discorso giudicato”, ed è perciò che gli si fa inevitabilmente un torto. Il discorso giudicato è una concatenazione eterogenea di frasi, e lo è anche se una sola è la persona che le pronuncia. Per esempio: è una canzone più una performance più un look. Oppure è una testimonianza più un look più uno sketch. O ancora: è una biografia più un medley più un’intervista. E poiché tutte queste cose, e altre ancora, sono montate insieme su un medesimo palco, dinanzi a un medesimo pubblico, quel che ne risulta, Sanremo, finisce con l’essere la somma di tutti i torti che subiscono, una dopo l’altra, la musica, il giornalismo, il costume, la satira, la politica. 

A condizione, beninteso, di pensare tutte queste cose come omogenee. Come se la politica non fosse anche spettacolo, la musica anche costume, la satira anche giornalismo (e viceversa). In verità, pure la pretesa di filosofeggiare sul Festival suona un po’ stonata e fuori luogo. Col che però si dà solo conferma di quel che veramente è Sanremo: la forza di concatenamento più robusta che c’è oggi in Italia. La forza che, più di un libro, di un discorso in Parlamento o di una omelia domenicale, dà la sensazione di “arriver”. Di accadere, e arrivare a destinazione.