David Crosby sul palco del One World Concert alla Syracuse University il 9 ottobre 2012 a New York (Neilson Barnard/Getty Images) 

(1941-2023)

David Crosby, un'icona americana “larger than life”

Stefano Pistolini

Solista o in band leggendarie, se n'è andato il suono della West Coast. Il country-rock venato di psichedelia di CSN&Y è stato il segno di un’epoca e un successo planetario. Agli altri resta un’America diversa con cui fare i conti

Bisogna venire a patti col fatto che il concetto di “morte del rock” sia molto di più di una lettura critica, quanto piuttosto un’informazione fattuale. Altrimenti diventa lancinante – per ciascuno a modo proprio, a seconda delle preferenze – lo stillicidio del bollettino quotidiano dei decessi di coloro che furono gloria della musica nel Novecento. Per alcuni sarà così davanti alla notizia che a 81 anni se n’è andato David Crosby, luce della California canterina, capofila e alfiere del suono della West Coast

  
Sgombriamo il campo dagli equivoci: che David sia arrivato vivo al 2023 è un mistero che la scienza indagherà e del quale lui stesso era il primo a sorprendersi, al cospetto di una vita vissuta a doppia velocità e spudoratamente all’insegna degli eccessi: “Non riesco a capire com’è che sono ancora qui e invece Jimi, Janis e tanti altri amici se ne siano andati”, diceva lui stesso in un’intervista. Ma le cose vanno così.

   

     

David nasce nel 1941 nel cuore della società dello spettacolo losangelina, figlio di un direttore della fotografia premio Oscar. L’apprendistato musicale negli ambienti fricchettoni dei Sixties lo porta a fondare con gli amici i Byrds, nei quali figura come cantante, chitarrista e compositore di pezzi storici quali “Eight Miles High” e “Turn! Turn! Turn!”. I dissapori coi colleghi finiscono però per estrometterlo presto dalla band: i soci gli rinfacciano inaccettabili botte di egocentrismo e Roger McGuinn, l’altro gallo nel pollaio, non tollera i suoi sermoni politici durante i concerti. “Forse non ero granché come musicista e certamente ero un rompiscatole. Ma credo sia stato un grande spreco”, ricorderà lui nell’autobiografia “Long Time Gone”. Crosby nel frattempo è già diventato uno dei protagonisti della scena musicale dei canyon attorno a L.A., dove si va radunando l’élite musicale americana del momento.

 
A casa di Joni Mitchell, con la quale intrattiene un’appassionata storia d’amore, conosce Graham Nash, da poco sbarcato dall’Inghilterra e poi Stephen Stills, reduce dai Buffalo Springfield. Bastano poche cantate lisergiche assieme, perché i tre musicisti restino sbalorditi dalla originalità della combinazione delle loro voci. Nasce il leggendario supergruppo Crosby Stills and Nash che nel ’69 diventa un quartetto con l’aggiunta del canadese Neil Young: il successo planetario è immediato, CSN&Y suonano quello che è appena il loro secondo concerto sul palco di Woodstock davanti a mezzo milione di persone e con l’album “Déjà Vu” (1970) diventano la band più amata e rappresentativa d’America, all’insegna del sofisticato suono country-rock, venato di psichedelia che intercetta magnificamente l’emotività del momento. Il sodalizio durerà praticamente per sempre, ma in perenne condizione d’intermittenza, tra periodiche reunion, dettate soltanto da motivazioni economiche e terribili dissidi tra i quattro, che finiranno per isolare l’una dall’altra le rispettive, strabordanti personalità. 

  

Sono ben più interessanti allora le carriere soliste di Crosby e soci: quella di David in particolare esordisce con l’album che va considerato in assoluto il più significativo di un’epoca, di un suono e di uno stato mentale. S’intitola “If I Could Only Remember My Name” nel quale, accompagnato da membri dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane e sostenuto vocalmente da Joni Mitchell, Crosby fonde interiorità ed esteriorità di quella scena e di quel momento musicale, conciliandole in una chiave semplicemente smagliante. 

  

  


Col passare degli anni però la vita dissoluta di Crosby, la sua bulimia di droghe a cominciare dal prediletto freebase (cocaina + eroina), la sua attitudine da ironico attaccabrighe con la sei colpi sempre nel vano dell’auto, presentano un conto pesante. Ci sono arresti, guai con la legge, cicli di riabilitazione e un trapianto di fegato nel 1994. David, comunque, non smette mai d’essere una presenza vivace nella scena musicale californiana, ormai da venerabile maestro e incarnazione di una leggenda che si va allontanando. La sua produzione solistica continuerà negli anni, sostenuto dai figli e mai disposto a vestire i panni del pentito: “Sono un uomo fortunato”, ripeterà sempre, “e non so quanto mi resti da vivere, ma non voglio sprecarlo stando qua a compiangermi”. 

    
La sua dipartita mette fine a questa parabola febbrile, ma cristallizza un’icona americana larger than life che, con tutte le sue sbavature, illustra la fascinazione d’uno stile di vita che è stata sogno perenne di un paio di generazioni, ormai anch’esse di fronte al tramonto. Agli altri resta un’America diversa con cui fare i conti, nella quale trovare richiami è ben più complesso. “La colla che ci teneva assieme proveniva dalle nostre voci, che si elevavano come Icaro, verso il sole”, ha dichiarato il vecchio compare Stephen Stills, per rendergli omaggio. Ecco: era gente immersa in visioni del genere. Cose superate, di cui però si possono ancora percepire bagliori piuttosto accecanti.