Robert Smith in concerto a Bologna (LaPresse)

In tour

Robert Smith, leader dei Cure, invecchia nel corpo e ringiovanisce nell'anima.

Marco Ballestracci

"Mi rendo conto che è proprio il palpabile passare del tempo che mi spinge a fare ciò che faccio. Credo sia lo stimolo più importante per ogni artista". Una parabola dark rock, fino agli ultimi concerti italiani

Si è conclusa da poco la parte italiana della tournée dei Cure. Quattro concerti a inizio novembre rispettivamente a Bologna, Firenze, Padova e Milano. Uno di questi, quello di Milano, è stato considerato da coloro che provano l’amore più intenso verso la band e che perciò intrattengono interconnessioni con fan in ogni parte del continente, il più bello dell’intera tournée. Il più bello almeno fino a questo punto, visto che il tour continuerà in Francia e in Inghilterra sino al 13 dicembre. Tuttavia, a essere sincero fino in fondo, sino a un po’ di anni fa non mi sarebbe importato un fico secco della discesa in Italia della band di Robert Smith. Al contrario, nel decennio tra il 1980 e il 1990, quand’ero giovinotto, avrei pesantemente osteggiato i fan dei Cure così come la musica del gruppo: entrambi così tristi, emaciati e vessati da complessi da sembrare già vecchi e in ultima analisi, come si dice giù in strada, da portare un bel po’ di sfiga. Ma, bisogna dir la verità, quando si è giovani si dà molta più importanza alla vista che agli altri sensi e, in questo caso particolare, all’udito.

D’altro canto persino Robert Smith in qualche modo giustifica chi la pensava come me. “Talvolta durante i concerti mentre canto delle canzoni che ho scritto quando avevo ventuno o ventidue anni – mi capita soprattutto quando suoniamo ‘A Forest’ – mi soffermo qualche attimo a considerarle e finisco sempre per pensare che quando ero giovane ero davvero molto vecchio. Perciò posso dire che pur avendo quarant’anni di più, mi sento decisamente meglio e persino più giovane di allora”. 

 

La ragione attraverso cui Robert Smith giustifica questa sensazione fa senza dubbio riflettere qualsiasi appassionato di musica, che sia o meno fan dei Cure. “Quando ero molto giovane, credo fino all’album ‘Faith’ o anche a ‘Pornography’, il tempo per me era un mare enorme su cui galleggiavo, con tutte le conseguenze del caso. Di tempo ce n’era in abbondanza e perciò la creatività ne risentiva fino a un certo punto. La cosa più importante era l’ispirazione che arrivava da ciò che accadeva intorno a me. Possiamo dire che sentivo trascorrere il tempo, ma non me ne importava. Invece ora mi rendo conto che è proprio il palpabile passare del tempo che mi spinge a fare ciò che faccio. Credo sia lo stimolo più importante per ogni artista, perché il tempo adesso è limitato ed è necessario fare una scelta per trascorrerlo, nel senso di utilizzarlo, nel modo migliore possibile”. 

 

È questa dichiarazione di progressiva consapevolezza che traspare durante le esibizioni dal vivo e che sposta finalmente il centro dei sensi d’un tiepido appassionato dalla vista all’udito. Non può essere che così perché Robert Smith è fisicamente molto cambiato: se solo agli occhi si desse importanza si può dire che il suo aspetto sarebbe del tutto fuori luogo per i canoni dell’eterna giovinezza del rock’n’roll. Basterebbe confrontare il video originale di “Just Like Heaven” (o della cinque anni più recente “Friday I’m in Love”) con qualsiasi riproposizione recente dal vivo della canzone per comprendere come il leader dei Cure, al contrario del resto dei componenti della band e di pressoché tutte le altre rock star del firmamento, se ne infischi abbastanza dell’aspetto fisico. “Questo è niente altro che un lavoro, baby. Si tratta di fare della musica che quando si sta sul palco diventa pure una pièce teatrale in cui bisogna recitare meglio che si può. Solo musica e teatro, tutto il resto sono chiacchiere”. D’altro canto chi ha assistito a più di una data della tournée italiana dei Cure si è reso conto d’una teatralità, nel senso dell’attenzione riservata ai movimenti dei musicisti sul palco, molto accurata, persino estesa all’andirivieni apparentemente istintivo e scatenato del bassista Simon Gallup.

 

Potrebbe trattarsi d’una speciale attenzione riservata al pubblico italiano a cui Robert Smith dichiara d’essere particolarmente affezionato, ma più probabilmente si tratta d’una straordinaria professionalità, nel senso assolutamente migliore del termine. “Tutto quello che facciamo è funzionale alla musica. Tutto quello che succede sul palco, come ci muoviamo, è funzionale alla musica. Il rossetto sulle mie labbra e il trucco sul mio viso sono funzionali alla musica. Se non ci fosse la musica sopra di noi, nessuna delle vite dei membri dei Cure avrebbe senso”.

 

A prescindere dal lungo processo che m’ha condotto dal semplice guardare i Cure al più sostanzioso ascoltarli, circostanza che mi fa attendere con molto interesse l’uscita del nuovo album dopo quattordici anni (il titolo dovrebbe essere “Songs Of The Lost World”), un po’ di tempo fa è accaduta una cosa che ha senza dubbio velocizzato la mia staffetta tra i sensi e fatto osservare Robert Smith con una stupefatta e sincera ammirazione.
Chiunque s’interessi anche solo un poco di faccende di spettacolo e di musica, sa quanto lo showbiz sia un gigantesco carrozzone: una sorta di enorme tendone a strisce gialle e nere del tutto simile al Circo Barnum. Là dentro gli artisti sono i grandi protagonisti dei numeri circensi, ma al tempo stesso sono le comparse d’uno spettacolo molto più grande popolato di persone che, è perfettamente comprensibile, traggono il loro sostentamento dallo scintillio dello show business. Neppure il virgineo rock’n’roll sfugge a questa regola ed è stato per esempio, almeno per quanto mi riguarda, piuttosto stucchevole assistere (in video, naturalmente) alla serie dei concerti obamiani del Kennedy Center Honors così pieni d’abiti da sera, ammiccamenti dem d’alto bordo e onorificenze artistiche. A questo proposito tra i party annuali più fastidiosi c’è la cerimonia dell’ammissione di artisti di particolare valore nella Rock’n’Roll Hall Of Fame: un appuntamento prettamente mondano a cui neppure Bob Dylan, che è stato assente giustificato alla cerimonia della consegna dei Premi Nobel 2016, ha voluto sottrarsi.

 

I Cure sono stati ammessi nella Rock’n’Roll Hall Of Fame nel 2019, perciò il 29 marzo di tre anni fa hanno attraversato l’Oceano e si sono recati al Barclays Center di Brooklyn per la Induction Ceremony. Il Barclays Center era, come naturale che fosse, colmo degli acuti gridolini del music business e sul tappeto rosso ad accogliere la band inglese e, in particolare, Robert Smith c’era una giornalista televisiva molto entusiasta. “Oh, i Cure! Siete eccitati di ricevere questo riconoscimento tanto quanto lo sono io per voi?”. Robert Smith, contrariamente a quanto prevede la sottintesa etichetta, non ha ammiccato per nulla. “No, francamente no. Tutto sommato il premio non l’abbiamo ancora ricevuto. Dopo vedremo”. Non ha rinunciato a una distaccata sincerità neppure dopo l’ufficializzazione dell’avvenuta ammissione, quando una nuova giornalista entusiasta l’ha incalzato: “Mister Smith! Quanto è importante per voi questa serata?”. “Beh non rappresenta niente di diverso da tante altre sere passate a suonare in giro. Ha la stessa importanza”. Poi, al momento d’abbandonare il palco del Barclays Center dopo la protocollare esibizione dal vivo, non ha concesso al selezionatissimo pubblico nessun saluto particolare. Ha semplicemente detto: “Grazie a tutti. Grazie a tutti. Ci vediamo presto!”, che è l’esatto saluto che ha riservato pochi giorni fa al pubblico del Forum di Assago. Come se i cotillon della Rock’n’Roll Hall Of Fame fossero uno scotto necessario nel lavoro del musicista di successo. Chissà perché in quel momento, vedendo quelle immagini e sentendo quelle risposte così poco ortodosse, m’è passato per la testa il ritornello d’una delle più belle canzoni di Springsteen, “Factory”: “It’s the Working / the Working / The Working Life”.

 

Ma, alla fine delle momentanee sciocchezzuole sul music business, tutto ritorna alle riflessioni sul tempo che passa e a come riverbera sulla musica dei Cure. “La canzone che apre i concerti di questa tournée è ‘Alone’. E’ una canzone nuova, una di quelle che farà parte del nuovo album, che non è affatto un disco semplice ed è la ragione per cui ne spostiamo in avanti l’uscita. ‘Alone’ è un po’ il simbolo di come ora interpretiamo la musica: prendendoci tutto il tempo necessario per muoverci all’interno delle canzoni ed esplorale per poi uscirne con qualcosa che riteniamo importante. Questo modo di lavorare fa parte del nostro rapporto con gli anni che passano. Il tempo adesso è importante e credo che proprio un pezzo come ‘Alone’, che non a caso abbiamo scelto come canzone d’apertura dei concerti, sia un manifesto fedele di questa relazione”. E’ probabilmente questo legame biunivoco col trascorrere del tempo che ha fatto in modo che Robert Smith, in ciascuno dei quattro concerti italiani, apparisse ancora più carismatico di quanto fino adesso la musica dei Cure avesse fatto immaginare. Una volontaria ritrosia nell’esprimere gesti di saluto verso il pubblico e il lento spostarsi da una parte all’altra del palco, come una controllata e muta autoesposizione, hanno reso gigantesca la musica alle sue spalle, che è in fondo, dopo tanta attesa, ciò che ci si aspetta dall’imminente uscita di “Songs Of The Lost World”.

 

“Francamente non mi interessa essere carismatico o no. Essere un modello oppure no. Sono cose che m’interessavano da giovane, quando m’ispiravo ad artisti che erano a loro volta dei modelli: Jimi Hendrix, David Bowie e Alex Harvey. Con i Cure abbiamo avuto la fortuna di poter costruire un nostro mondo artistico. Detto in altre parole siamo riusciti a creare una nostra via a cui, ne siamo consapevoli, molti hanno guardato, così come facevano noi con i nostri eroi quando cominciavamo a suonare e frequentavamo la scuola cattolica di Crawley (la cittadina a una cinquantina di chilometri a nord di Brighton dove Robert Smith è cresciuto). Adesso però queste cose non hanno più importanza, sono passati più di quarant’anni. Se desiderassi ancora essere carismatico oppure un modello, beh, credo che sarei un fallito. Certamente un fallito di successo, perché i nostri album hanno venduto molto, ma pur sempre un fallito ai miei occhi”. 

 

Perciò alla fine posso dire di essere molto contento del mio progressivo cammino di avvicinamento alla musica dei Cure, iniziato quando pensavo che il gruppo e i fan portassero sfortuna e terminato con le due ore e quaranta minuti del concerto al Forum di Assago, accompagnato nell’attraversamento della Pianura padana da amici che un po’ non credevano ai loro occhi, ma ai quali, al contempo, veniva da ridere./ di Marco Ballestracci

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