Marianne Faithfull e Mick Jagger all’inizio degli anni Settanta. In basso, la copertina di “Negative capability” (foto Olycom) 

Addio al vecchio rock'n'roll

Marco Ballestracci

I Rolling Stones fanno finta che il tempo non passi. Meglio quegli artisti che sanno essere fedeli ai loro anni

C’è un momento elettrizzante per chi ama il rock’n’roll ed è quando i tecnici  accendono le pile portatili e si muovono dietro gli amplificatori per prendere il proprio posto sul retropalco, così da essere pronti a intervenire in qualsiasi circostanza. E’ il segnale che manca pochissimo all’inizio del concerto e poi, uno alla volta, entrano i Rolling Stones e attaccano “Street Fighting Man”, che è una delle loro canzoni che preferisco. Uscì come singolo negli Stati Uniti a fine agosto del 1968 come apripista dell’album “Beggars Banquet”, ma, a quanto si racconta, il quarantacinque giri venne boicottato dai deejay americani perché parlava di sommosse popolari, argomento un po’ troppo scottante nel pieno “dell’esasperante e intricato problema vietnamita”. 

   

  
Fatto sta che, dopo 54 anni dall’uscita, “Street Fighting Man” è il brano con cui si sono aperti i concerti del “No Filter Tour”, la tournée appena terminata della band di Jagger & Richards su cui s’è abbattuto di tutto: cancellazioni, rinvii, la morte di Charlie Watts e tutto ciò che di immaginabile può accadere agli spettacoli dal vivo nell’epoca del Covid. Ebbene non posso nascondere che vedere saltellare sul palco un quasi settantanovenne con i capelli color palissandro, che balza da una parte all’altra del proscenio grazie a  meritorie sedute atletiche e che canta una canzone di rivolta ispirata al maggio francese e alle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, beh, un poco m’inquieta. Mi inquieta soprattutto perché ho la vaga sensazione che Mick Jagger, il front-man degli Stones, stia davvero cercando di negare con tutte le forze e oltre la ragionevolezza che il tempo trascorra e che poco o nulla sia mutato dal 5 luglio 1969 quando, due giorni dopo la morte di Brian Jones, la band suonò all’Hyde Park di Londra dopo aver liberato un migliaio di farfalle bianche.

 

Un quasi settantanovenne con i capelli color palissandro saltella sul palco grazie a  meritorie sedute atletiche. E’ un po’  inquietante


Tuttavia non bisogna dimenticare ciò che ha raccontato Keith Richards – da sempre l’altra metà degli Stones – a James Fox, il suo (auto) biografo in “Life”, a proposito del passare del tempo: “Ma poi c’è quella brutta parola: pensione. Non posso andare in pensione finché non schiatto. Ci sono delle maldicenze sul fatto che noi Rolling Stones siamo dei vecchietti. Il fatto è che, l’ho sempre detto, se fossimo neri e ci chiamassimo Count Basie o Duke Ellinghton, nessuno si sognerebbe di dire nulla. Sembra che i rocker bianchi non debbano fare queste cose alla nostra età”.

 
E’ certamente fuor di dubbio che ci siano schiere di persone che amano ancora ascoltare dal vivo “Street Fighting Man”, “Sympathy For The Devil” e magari, mentre gli ultimi due esemplari originali degli Stones  – Jagger e Richards – la cantano e la suonano sul palco, associare “(I Can’t Get No) Satisfaction” alla scena dello sci d’acqua in “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola. Per l’amordiddio non si può certo dire a qualcuno che cosa deve ascoltare e persino con che stato d’animo deve farlo, ma c’è comunque un folto gruppo di appassionati che si aspetta dall’artista importante – ogni lettore può decidere cosa significhi “artista importante” –, oltre che di far rivivere attraverso alcune canzoni le emozioni che il tempo ha cosparso di polvere, anche di essere accompagnati un poco più avanti nella propria esperienza musicale.

  

Gli ultimi album di Johnny Cash: la vecchiaia porta, se l’artista lo desidera, a una nuova e più approfondita interpretazione del rock’n’roll

  
E’ interessante, per esempio, considerare l’avventura d’un musicista come Johnny Cash. Dopo una carriera iniziata nel ’55 nei gloriosi studi della Sun Records e scandita da successi memorabili come “Folsom Prison Blues”, “Walk The Line” e “Ring Of Fire”, nel 1994, compiuti sessantadue densissimi anni, intraprese una nuova strada insieme a Rick Rubin, un produttore artistico lontanissimo dall’ambiente musicale che fino a quel momento Johnny Cash aveva frequentato. Il connubio con Rubin lo condusse a incidere quattro album d’un livello persino superiore a quelle che fino a quel momento erano considerate le sue incisioni migliori.

 
Tra il 1994 e il 2002 (cioè tra i suoi 62 e 70 anni) le uscite di Johnny Cash fecero comprendere a molti come il passare degli anni e il conseguente entrare nel novero degli “artisti attempati” conducesse, se l’artista lo desiderava, a una nuova e più approfondita interpretazione di ciò che viene chiamato rock’n’roll: un percorso che, album dopo album, portava a un’interpretazione molto più scarnificata di quella musica e quindi più vicina all’essenza dell’arte che così tanto si ama. 

 
I suoi ultimi concerti, in cui nella parte centrale accantonava la band e si addentrava in solitudine nella nuova produzione, parevano davvero due esibizioni differenti e il pubblico percepiva nettamente che quando Johnny Cash s’esibiva da solo con la chitarra, percorreva una strada che lo conduceva a profondità espressive poco ascoltate  nel suo repertorio precedente.

 
Questa scelta, certamente incoraggiata da Rick Rubin, appare ancora oggi – a quasi ventinove anni dalla scomparsa di Cash – molto  stimolante, ma poco praticata da altri artisti affermati.

  

Sulla copertina di “Negative Capability” del 2018, Marianne Faithfull a 72 anni si mostra a mezzo busto con il bastone da passeggio

 
Questo perché il rock’n’roll è un vero e proprio teatro situazionistico, ma dopo un po’ l’eccessiva messa in scena diventa noiosa, soprattutto perché, sembra ovvio ma non lo è, il mito dell’eterna giovinezza più passa il tempo più si rivela una balla colossale. Però, a essere sinceri, “lo star nel credere” della sempiterna giovinezza del rock si rivela ancora un miraggio molto suadente e degno dell’isola dei lotofagi. Non nascondo che anche nella mia personale esperienza l’illusione ritorni, di tanto in tanto, a far capolino per poi andare in mille pezzi alla prima occasione. L’ultima volta è accaduto quando, per puro caso, il curatore della più importante trasmissione radiofonica italiana di libri ha deciso di programmare, negli intervalli tra le interviste agli scrittori, alcuni brani di “Negative Capability” di Marianne Faithfull. Sono bastati pochi secondi di “Misunderstanding”, la prima canzone dell’album, perché quel pizzico di sindrome di Peter Pan svanisse in un attimo. “Negative Capability” è un disco del 2018, in cui i testi sono tutti scritti dalla signora Faithfull, che al momento dell’incisione ha ben impresse sul corpo le conseguenze dei suoi 72 anni vissuti molto intensamente e sulla cui copertina è riportata una stupenda immagine a mezzo busto della cantante che però  include anche l’impugnatura del bastone da passeggio che da diverso tempo l’aiuta nella deambulazione. Inutile dire che anche per questo album valgono le medesime considerazioni che sono state fatte per le incisioni più “attempate” di Johnny Cash: canzoni così scarnificate da avvicinarsi vertiginosamente all’essenza più profonda della musica e che dimostrano che, se l’artista vuole, la luccicanza non s’appanna affatto con l’età, anzi, curiosamente, può essere condotta persino a oltrepassare il limite fisico della vita, che è poi il fine ultimo dell’arte. Perciò è difficile credere che sia stato semplicemente il caso a fare in modo che il nuovo album di Marianne Faithfull  – “She Walks In Beauty” del 2021 – risulti composto da una serie di letture (o recitazioni) di poesie di Lord Byron, di Percy Bysshe Shelley, di John Keats su musiche di Warren Ellis. Ascoltandolo si percepisce una sorta di progressiva dissolvenza delle parole e della musica, che è l’esatto contrario di ciò che continua a rappresentare l’iconografia del rock’n’roll.

 
All’appassionato non sarà certo sfuggito che, alla fine, si è voluto creare un parallelismo tra due anime che nella seconda metà degli anni 60 rappresentarono, insieme alla coppia Anita Pallenberg e Keith Richards, il ménage simbolo di un’epoca così turbolenta e rivoluzionaria. Le foto insieme di Marianne Faithfull e Mick Jagger hanno campeggiato a lungo nelle camerette giovanili di chi stava in provincia e pensava “alle porte del cosmo che stanno su in Germania” (“Musica Ribelle”, Eugenio Finardi).

 
Oggi però, a distanza di cinquant’anni, le loro immagini sono diventate del tutto discordanti. Anzi si può dire che appaiono decisamente agli antipodi.
Uno, come si diceva, ha settantanove anni e si agita sul palco, con i capelli color palissandro e canta canzoni in cui sia Marianne Faithfull che Anita Pallenberg, cinque decadi fa, avevano indossato le vesti luminescenti di muse ispiratrici e persino di prime esecutrici (“As Tears Go By”) e di autrici (“Sister Morphine”). L’altra, al contrario, molto difficilmente risalirà sul palco a causa delle precarie condizioni fisiche che l’ultima video intervista non cela affatto. Tuttavia l’omaggio di Marianne Faithfull ad Anita Pallenberg in “Negative Capability”, la canzone “Born To Live”, è d’una emotività straordinaria, con riflessioni contemporanee di profonda maturità che si allontanano anni luce dal mito dell’eterna giovinezza del rock’n’roll. 

  

“Quando ho recitato le parti vocali mi sentivo davvero debole. Le ho riascoltate e mi hanno stupito per la forte sensazione di vulnerabilità”

  
Intendiamoci non c’è nulla di male nell’appartenere al grande carrozzone che ancora segue la scia di codesto mito: là hanno posseduto una roulotte Elvis, i Rolling Stones (e quindi anche Marianne Faithfull), i Beatles, Hendrix e chi più ne ha più ne metta, ma c’è un momento in cui, se si è sopravvissuti, i letti d’albergo diventano scomodi e di notte è meglio dormire il più possibile tranquilli, che per produrre arte, a una certa età, non basta più uno schiocco di dita, è necessario concentrarsi molto a lungo.

 
Perciò chi scrive, dopo aver staccato molto tempo fa il poster degli Who dalla cameretta, sta decisamente dalla parte di Marianne Faithfull che è, sì, decisamente affaticata, ma ancora in grado di condurre nel luogo così ammaliante dove la musica, oltreché essere nuova, è scarnificata e vicina all’essenza.
“Beh, quando ho recitato le parti vocali di ‘She Walks in Beauty’ mi sentivo davvero debole, ma le ho riprovate finché non mi sono sentita soddisfatta. Poi quando le ho riascoltate mi hanno stupito perché davano una forte sensazione di vulnerabilità, ma è proprio questa vulnerabilità che rende così grandi i poeti romantici inglesi”.

 
Poi durante l’intervista al New York Times ammette che parlare dell’ultimo album “mi aiuta a ricordare chi sono veramente e non considerarmi solo un’anziana signora malata”. “Ma lei, signora, è Marianne Faithfull!”. “Certo. Lo so bene. Sono Marianne Faithfull. Maledizione!”.

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