Iggy Pop e Tom Waits, © LAPRESSE 

il foglio del weekend

Tom Waits e il bivio tra silenzio e musica

Marco Ballestracci

Ci sono quelli che fanno show e pubblicano un disco all’anno per paura di essere dimenticati. E poi c’è lui

L’horror vacui insidia molte categorie di persone, soprattutto gli artisti e, tra questi, i musicisti sono i bersagli più sensibili. Il terrore del vuoto ha la straordinaria capacità di minare con una notevole speditezza anche miti che paiono molto solidi. La fregola di comparire presto o appena un po’ più tardi con una nuova testimonianza musicale – cioè con un album nuovo – o con una reunion che celebri i bei tempi andati che non torneranno più sta riducendo con la medesima rapidità gli idoli a dei comuni mortali. D’altro canto, a pensarci bene, gli idoli erano sempre stati dei comuni mortali, ma si faticava a pensare, per esempio, che il creatore di “Astral Weeks” – Van Morrison – potesse essere uguale a tutti gli altri esseri umani. Appariva evidente che solo uno spirito trascendente poteva replicare  con un simile pensiero alla sollecitazione di Bill Flanagan – allora redattore di Rolling Stone – sulla natura dell’ispirazione: “Beh, in realtà le canzoni esistono già. Sono nell’aria. È compito dell’autore afferrarle e tirarle giù. Portarle a terra. A me è capitato proprio questa missione e devo in qualche modo portarla a termine”. Per questa trascendenza Van Morrison doveva  per forza essere oggetto di venerazione artistica.

È tuttavia normale che l’inarrestabile scorrere dei decenni, e la nascita di nuove tendenze musicali, abbia inevitabilmente indebolito lo scintillio d’un tempo e così, non solo nel caso di Van Morrison, si è finiti per assistere ai concerti di un (grande) artista solo per riascoltare canzoni di venti, trent’anni fa, ottenendo un poco del medesimo triste effetto che producono le tribute band oppure le stazioni rock che trasmettono esclusivamente grandi classici. Si tratta di emittenti che andavano (e vanno) molto di moda negli Stati Uniti, ma che poi hanno attraversato l’oceano e si son profondamente radicate anche da noi. Sono stazioni radio – o meglio, network radiofonici – che paiono decise a procedere a spron battuto verso l’epilogo del “Ritratto di Dorian Gray”: con le canzoni ancora lucide dello smalto del tempo in cui sono state incise, mentre  le fisionomie dell’autore e dell’ascoltatore d’allora, nonostante i tentativi di arginare il processo, incartapecoriscono sempre di più. Insomma pare che Oscar Wilde, nel 1890, avesse già poggiato le tavole della legge del mondo dello spettacolo che, tradotte in un unico aforisma, diventano il celebre: “Al mondo esiste una sola cosa peggiore dell’essere soggetto di conversazione, ed è il non essere soggetto di conversazione.

L’horror vacui dell’artista è proprio questo: il non essere più soggetto di conversazione. Perciò per questo, o per più prosaiche questioni economiche – in America, per esempio, le pendenze col fisco sono pungoli inesauribili dell’estremo prolungamento di carriere artistiche – è necessario riapparire con una certa frequenza sul mercato discografico, o come accidenti si chiamano adesso le piattaforme su cui si vendono i brani musicali. È davvero molto raro che degli idoli riescano a sottrarsi all’uno o all’altro stimolo. Così, esattamente a dieci anni dall’uscita (21 ottobre 2011) dell’ultimo album di Tom Waits, “Bad As Me”, si rimane attoniti dal suo perdurante e fragoroso silenzio.

D’altro canto Waits aveva già abituato il suo pubblico a lunghe interruzioni. Prima di “Bad As Me” erano trascorsi cinque anni dal precedente “Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards”, ma quantomeno “Orphans…” era un cofanetto di tre cd e, in qualche modo, il lustro era passato più agevolmente grazie alle abbondanti scorte di musica che la tripla confezione conteneva e, giusto in mezzo, alla provvidenziale uscita del disco dal vivo “Glitter and Doom”.
Al contrario “Bad As Me” è un unico dischetto e riuscire a far trascorrere dieci anni con solo tredici canzoni a disposizione (più tre “bonus tracks”) è davvero un’ardua impresa, e neppure ha aiutato l’apparizione di Tom Waits per salutare David Letterman, il 15 maggio 2015, in una delle ultimissime puntate del “Late Show”, perché la canzone che gli ha dedicato, “Take One Last Look”, invece di placare la sete della sua musica l’ha incrementata ancor di più.

Il sito tomwaits.com, inoltre, è troppo sparuto di comunicazioni che lo riguardano e soprattutto non dà alcuna avvisaglia su quando codesto silenzio s’interromperà. Tra le notizie più recenti si evincono solo riproposizioni remixate di canzoni di album più o meno recenti, per quanto possa valere l’aggettivo “recente” per un musicista che non pubblica dischi da dieci anni, oppure ricordi di vecchi compagni di musica e d’avventura – il leggendario Chuck E. Weiss – che se ne sono andati da poco.

Così, durante uno spettacolo di musica e racconto in un piccolo locale sotterraneo di Roma, organizzato per commemorare il settantesimo compleanno di Waits, tra il pubblico di appassionati serpeggiava un certo sconforto per l’insistente mancanza di notizie del proprio idolo, perché l’assenza della sua musica rappresentava per chi ha una certa propensione all’esplorazione, la mancanza del capo spedizione. Infatti essere fan di Tom Waits si traduce  soprattutto nel desiderio di scoprire dove, la prossima volta, l’artista porterà la sua musica e, con essa, pure l’ascoltatore.

Perché, tra le più diverse ragioni d’ammirazione, ciò che viene più spesso citato come motivo d’attaccamento è che, grazie all’incedere progressivo dei suoi album, l’appassionato si ritrova ad attraversare golfi mistici musicali che mai avrebbe immaginato di solcare. “Beh, non avrei mai detto che sarei stata ad ascoltare un tizio che canta una canzone accompagnandosi solo con un martello e un incudine. Eppure l’ho fatto e alla fine della canzone ho anche applaudito e gridato come una matta”. L’esperimento più semplice che può essere condotto per comprendere il respiro di questa progressione è confrontare l’atmosfera musicale del primo album, “Closing Time”, del 1973 con, per esempio, il guazzabuglio sonoro (nel senso buono del termine: inteso come originalissimo assortimento) di cui trasudano i tre cd di “Orphans”.

Sono mondi completamente diversi, come se l’ascoltatore, nel corso del tempo, fosse passato mano a mano dagli interni solitari delle tavole calde che Edward Hooper immortalò in “Automat” o in “Nighthawks” (è presumibile che non sia un caso che il primo disco dal vivo di Waits s’intitoli “Nighthawks at The Diner”), ai precipizi vorticosi di folla dentro alla Gran Central di New York, col sottofondo dei treni che partono e degli schiamazzi dei viaggiatori ai quali hanno fregato il portafoglio sul marciapiede.

Tuttavia questo non è il tratto più importante della prova di laboratorio, perché un buon artista, ovunque desideri andare, trasporta con sé lo spettatore. Invece ciò che davvero sorprende è il fatto che l’appassionato di Tom Waits non riesce a decidersi se preferire canzoni come “Ol’ 55” del 1973, con un combo di strumenti da night club e la voce del cantante così tanto West Coast che finì per ispirare gli Eagles, oppure “Big In Japan” del 1999, con un ritmo percussivo quasi industriale e la voce che pare il verso distorto d’un corvo. L’incertezza nella scelta  è davvero inspiegabile perché le due canzoni rappresentano mondi musicali completamente differenti, se non addirittura opposti, che se si trattasse di due distinti artisti sorgerebbero inevitabili conflitti d’opinione e grandissimi sfottò. Tutto ciò è enormemente amplificato, come si diceva, dal decennale silenzio musicale di Waits che genera, al contempo, enormi aspettative. Ma tutto potrebbe essere un piccolo inganno perché, come sanno quelli che lo amano e che hanno letto le sue interviste dagli anni Ottanta in poi, ogni sua affermazione e persino ogni gesto può essere contraddetto da lì a un attimo.

In altre parole potrebbe essere che, di fronte a così tanta gente che attinge a piene mani dal suo modo di fare musica e che la propone, giurin giurello, come autenticamente propria, Waits abbia deciso di scostarsi e di osservare in silenzio come va a finire la questione. Oppure magari è più probabile che si sia avvicinato al nirvana dei musicisti che battono la bandiera, ad esempio, di Miles Davis in “A Silent Way”, diminuendo ancora le note per raggiungere, dietro a qualche angolo del tutto riparato dal virtuosismo, i punti più silenziosi, come si raccontava all’inizio, di “Astral Weeks” che stanno ancora lì dal novembre del 1968 a indicare la pietra miliare che fissa l’incrocio tra il silenzio e la musica.

Ma visto che Waits è più multifronte di Giano potrebbe anche accadere che si comporti come chi ha imparato tutti i trucchi del mestiere dai musicisti neri – nella sua musica influenze di questo tipo ce ne sono a bizzeffe – e li applichi come se la sua discografia fosse, in realtà, un unico brano. “Amico, quando suoni un pezzo e tocca a te la parte solista, beh, tra una misura d’assolo e l’altra fai un bel po’ di silenzio, così la gente ti resta appesa e non aspetta altro che tu attacchi di nuovo. È così che si tiene per il coppino il pubblico”. Sono giochetti vecchi come il cucco tramandati di musicista in musicista, ma non c’è alcun dubbio che tutti gli appassionati spasimino per ascoltare quanto frenetico e schiamazzante possa essere la ripresa dell’assolo, che è poi niente altro che l’attacco della prima canzone del prossimo album. Ma potrebbe anche accadere che Waits, come gli artisti più grandi, abbia deciso di eclissarsi senza fare alcun annuncio, così da fare definitiva terra bruciata attorno all’horror vacui e costringerlo a scovare un altro collega che finisca rapidamente nella trappola più comune: dare l’addio alle scene per poi ricomparire più o meno repentinamente.

Tuttavia l’ipotesi d’un definitivo eclissamento non è poi così drammatica. Tom Waits dal 1973 ha inciso 16 album in studio, tre album dal vivo, due colonne sonore e un cofanetto di tre cd che vale come altrettanti album, nonché sette raccolte di versioni alternative di pezzi già incisi. Tutti d’una qualità quantomeno altissima. In più ora ha inciso anche dieci anni di silenzio. Tutto ciò che è musica è ancora riascoltabile e godibile come la prima volta, senza alcun appannamento dovuto al trascorrere del tempo e anzi col dono di accompagnare meravigliosamente il tanto temuto invecchiamento, con in più la decennale valorizzazione della frase di Miles Davis: “La vera musica è il silenzio. Le note non fanno altro che incorniciarlo”. Tutti ventagli e silenzi ancora così cristallini da poter affermare che, oggi, Tom Waits è il più grande artista di ciò che chiamiamo musica rock, per quanto, come si diceva in un vecchio articolo, “la locuzione ‘musica rock’ comprenda una superficie piuttosto ampia”. A occhio e croce, più o meno grande come una prateria.

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