Erik Holmberg/Ritzau Scanpix via AP 

Eric Clapton non è solo "Stand and deliver", ma anche "Sunshine of your love"

Marco Ballestracci

Era il dio della chitarra. Ora canta di complotti e dittatura sanitaria. Ma il declino umano di un fuoriclasse va separato da quello musicale

Chi è appassionato di musica rock, per quanto la locuzione “musica rock” comprenda una superficie piuttosto ampia, e si ritrovi nella non facile situazione di includere tra i suoi conoscenti non solo dei No vax, ma addirittura dei negazionisti della pandemia, avrà senza dubbio ricevuto poco prima di Natale un messaggino sul cellulare che conteneva la canzone di Van Morrison, ma cantata da Eric Clapton, “Stand And Deliver”. Il pezzo sgusciato nel dispositivo è una sorta di ballata tra il country e il blues che è indubbiamente – non c’è alcun tema di smentita – un forte incitamento alla ribellione verso le limitazioni imposte per contrastare la diffusione del Covid. Al tempo stesso, Van Morrison, in una contestuale lettera aperta, ha definito le norme per il contenimento del virus come basate sulla “pseudo-scienza”. Come ovvio – non poteva accadere altrimenti – contenuti tanto stridenti sono stati mitigati dalla circostanza che i fondi incassati da “Stand And Deliver” sono stati devoluti al “Lockdown Financial Hardship Fund” indirizzato ai musicisti che il lockdown ha messo in gravi difficoltà economiche.

Più recentemente, nel luglio 2021, due giorni dopo che Boris Johnson aveva annunciato l’obbligatorietà del pass vaccinale per accedere agli spettacoli dal vivo, Eric Clapton –  che ora, come passa il tempo, ha 76 anni –  ha ripreso in mano la questione e annunciato: “Non mi esibirò in nessun palco in cui sia presente un pubblico discriminato. A meno che non sia prevista la partecipazione di tutte le persone, mi riservo il diritto di annullare lo spettacolo”. Così, ancora una volta, l’appassionato di musica rock s’è ritrovato a ricevere messaggi sul telefonino con su scritto “Eric Clapton non vuole il green pass, Fedez vuole il green pass. La scelta è ovvia”. Al contempo si sono scatenati alcuni musicisti italiani che, in senso opposto, hanno brandito frasi come “quando andrete a un concerto di Clapton finalmente rischierete di non morire solo di noia”. Così è apparso chiaro che la pandemia, oltre al drammatico allerta sanitario, ha portato con sé una sorta di cortocircuito mentale che ha coinvolto anche il mondo musicale, conducendolo a una notevole serie di sragionamenti.

La frase “Eric Clapton non vuole il green pass, Fedez vuole il green pass. La scelta è ovvia” inviata da chi si oppone a ogni limitazione e che sottende contenuti un po’ No vax, un po’ negazionisti, è evidentemente un’affermazione priva di senso, perché impone il confronto tra mondi ed epoche musicali del tutto differenti, nonché scredita di proposito il movimento rap italiano che, nella parte meno mainstream, vanta artisti di assoluto rispetto come, per citarne due, Moder o Murubutu, ma che, come si sottolineava, continuano a riferirsi all’Italia di oggi e non all’Inghilterra del decennio 1965-1975. Al contempo la frase “quando andrete a un concerto di Clapton finalmente rischierete di non morire solo di noia” è l’esempio lampante di quel metodo che vuole innanzitutto incrinare le qualità d’una persona per poi demolirne con più facilità le idee in pubblico. Anche questo è un comportamento poco ortodosso anche perché, detto tra noi, chi ha lanciato l’invettiva dovrebbe rendersi conto della molto relativa importanza che vanta nel ristrettissimo mondo musicale italiano, rispetto a quella piuttosto estesa di cui ha goduto Eric Clapton quando, soprattutto, si esibiva con Ginger Baker e Jack Bruce nei Cream.

Perché, insomma, Eric Clapton – potrà essere negazionista finché si vuole e, nel 1976, durante un concerto a Birmingham, aver schiamazzato frasi razziste – non è affatto un musicista che non ha lasciato il segno del suo passaggio. Nella leggendaria polveriera di fenomeni che è stata la Londra degli anni Sessanta solo lui ha potuto fregiarsi della famosissima scritta “Clapton is god” sulla recinzione di lamiera in Arvon Road a Islington, giusto a un chilometro dal British Museum, nonostante fossero in circolazione grossissimi calibri chitarristici come Peter Green, Jeff Beck e Jimmy Page, per tacere di altri membri di band leggendarie che spuntavano a bizzeffe in Inghilterra. Inoltre la sua fama e la sua potenza carismatica si sono estese nello spazio e nel tempo. Per esempio, per chi scrive, è davvero indimenticabile la scena capitata nell’aula d’una facoltà giuridica d’un ambitissimo ateneo italiano verso la fine degli anni Novanta. Un docente di Diritto pubblico, al culmine d’un esame molto sconfortante, volle coglionare il candidato prima di bocciarlo e gli chiese a bruciapelo: “Adesso mi dica tutti i gruppi in cui ha suonato Eric Clapton”. 

A onor del vero il giovanotto non conosceva granché delle materie trasferite dallo stato alle regioni in base alla legge n. 59 del 1997, ma era un grande appassionato di blues e, in un generale sgranar d’occhi, gli sciorinò papale, papale l’ordine delle band: “Beh, ha suonato prima negli Yardbyrds, ma poi s’è stufato perché eran diventati troppo commerciali, poi nei Bluesbreakers di John Mayall, ma solo per un album, e poi nei Cream, nei Blind Faith e nei Derek and The Dominoes”. Allora, di fronte a un’aula colma di studenti esterrefatti, testimoni dell’incredibile risposta, il docente, obtorto collo, dovette per forza abbozzare e, sospirando, vergare un 20/30 sul libretto universitario. Questo è un esempio puntuale dell’ascendente che Eric Clapton, per un paio di generazioni, ha esercitato un bel po’ a sud del Canale della Manica e quasi trent’anni dopo lo scintillare del suo periodo migliore.

È comunque risaputo che, nel 1966, l’intuizione di Chas Chandler di affiancare a Jimi Hendrix solo un batterista e un bassista nella Jimi Hendrix Experience, derivò proprio dalla mistura esplosiva, sia nelle registrazioni in studio che dal vivo, confezionata dal trio Eric Clapton, Jack Bruce e Ginger Baker nei Cream. Certo, la sorte ha fatto in modo che Clapton, nonostante l’impegno profuso per entrare a far parte del celebre “club dei 27”, sopravvivesse all’epoca più psichedelica della musica e ne uscisse persino lucido, ma inevitabilmente imboccante quella parabola discendente che avrebbero senza dubbio percorso anche i membri del citato club se il destino non gli avesse cristallizzati nel sempiterno modello di “giovani, belli, maledetti e morti”. La sua parabola discendente ha tuttavia avuto dei picchi positivi notevoli, soprattutto grazie all’intelligente intuizione di mutuare splendidi talenti altrui, come quello del mai abbastanza citato J.J. Cale, sotto la cui immagine sia Clapton che, soprattutto, Mark Knopfler dovrebbero ogni giorno accendere una candela votiva. 

Inoltre, l’immutata capacità di suonare il blues (il “tornare al blues” è un espediente utilizzato sovente da numerosissimi artisti quando grattano il fondo del barile) ha rappresentato una bella boccata d’ossigeno quando la sua capacità creativa si è rivelata, anche ai  suoi occhi, ridotta al lumicino. Poi, col passare del tempo, anche il blues ha mutato connotati e ciò che era stato per tanto tempo regno indiscusso di Manolenta (“Slowhand” è il soprannome di Clapton) è diventato appannaggio di musicisti molto più giovani, con approcci a questa musica completamente diversi. Tanto che, poco prima che Clapton uscisse con l’esternazione anti Green pass del luglio 2021, Billboard ha annunciato il primo posto sia negli album rock sia negli album blues di “Delta Kream”, il nuovo lavoro dei Black Keys, un duo originariamente di chitarra e batteria piuttosto lontano dalla consueta concezione del blues, pur comunque contenendola, perché anche in questo genere musicale si cresce inevitabilmente “sulle spalle dei giganti”. Pertanto ciò di cui stiamo discorrendo è la cronaca d’un lento ma inesorabile declino, dopo che Eric Clapton aveva toccato l’apogeo assoluto della sua deità al termine del Farewell Concert, il concerto d’addio dei Cream, tenuto alla Royal Albert Hall il 26 novembre del 1968. 

Intendiamoci bene, parlare del suo declino non significa prendere la strada dell’incrinatura del personaggio per poi raderne al suolo le idee. Niente affatto. Il declino nella musica, come nella vita, è il processo più normale che possa accadere. Forse solo la musica classica è misericordiosa in questo senso. Un esecutore un poco avanti con gli anni riesce a colmare, e forse anche a superare, con un suono più riflessivo il divario di pura tecnica delle giovanili prestazioni musicali. Sfortunatamente però il rock e il rock-blues s’identificano quasi esclusivamente con la gioventù e con l’esuberanza. Così come ciascuno di noi, comuni mortali, osserva sorridendo e scuotendo il capo una foto dei vent’anni, non ci vuole molto a figurarsi Clapton che guarda con una certa nostalgia le immagini del concerto conclusivo dei Cream alla Royal Albert Hall. 

Per lui deve essere impressionante rivedere nel filmato i ragazzi londinesi che scuotono forsennatamente la testa, con enorme ondeggiamento di capelli, durante “Politician” e vederli perdere quasi del tutto il lume della ragione mentre, ventitreenne, spara due acidissimi assolo in “Sunshine Of Your Love”.
Certo, poi ci sono stati i successi di “Layla”, di “I Shot The Sheriff” (di Bob Marley), di “Cocaine” (di J.J. Cale), ma il magma sonoro, qualcosa che ricorda la creazione nel libro della Genesi, dei concerti californiani del “Goodbye Tour” dei Cream non ha proprio nulla a che fare con la produzione successiva. In quelle notti valeva per tutti la famosa scritta sul muro: “Clapton Is God”. Oggi, invece, Eric Clapton è rimasto un dio solamente per quelli che ricordano quell’ultimo concerto londinese e non sono più così tanto giovani da scuotere forsennatamente la testa, anzi alcuni vengono persino ad ascoltarlo seduti su una carrozzina a motore. È il dramma profondo di chi è stato in cima al mondo della musica e ha visto cose inimmaginabili, ma la cui deità, da molto tempo, s’è tramutata in normalità. Anzi è pure accaduto che le cose siano andate così a rotoli che il primo posto delle classifiche del blues e del rock sia stato occupato da una band molto chitarristica, ma il cui chitarrista - Dan Auerbach dei Black Keys – difficilmente avrebbe trovato posto, neppure come chitarrista ritmico, in una delle band dei tempi meravigliosi in cui Clapton era Dio. 

 

Perciò tutto appare così tanto cambiato da credere che non ci sia più una logica e che le cose procedano davvero a rovescio. In più l’AstraZeneca che gli è stato inoculato gli ha ghiacciato le mani e i piedi. È comprensibile che per tutti questi motivi Eric Clapton abbia prima cantato “Stand and Deliver” e poi deciso di scrivere una canzone, “This Has Gotta Stop”, il cui ritornello dice: “Tutto questo deve finire / Quando è troppo è troppo / Non sopporterò queste balle più a lungo”. Nel video che l’accompagna, poi, proliferano burattini disarticolati e figure inquietanti che muovono i fili a cui questi pupazzi sono legati. Ascoltato e visto tutto ciò, a molti, anche a chi scrive, è venuto da sorridere e talvolta persino da sghignazzare. Però bisogna sempre mantenere quel pizzico d’onestà per coglionarlo per le sue opinioni – per “This Has Gotta Stop” e per quella vecchia storia di razzismo – ma lasciando fuori dalla questione la sua musica. Perché, non ci si pensa mai abbastanza, prima che Jack Bruce, Eric Clapton e Peter Brown componessero “Sunshine Of Your Love” la canzone non esisteva affatto. E se nel febbraio del 1967, proprio come accade nella Genesi, non l’avessero  creata dal nulla, tutti avremmo perduto qualcosa.

 

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